E LA CHIAMANO ESTATE / 2

Quella fu l'ultima spiaggia della Balena bianca

L'onda di Tangentopoli spazzò via la Prima Repubblica. L'offensiva mafiosa, le stragi di Cosa Nostra, la corruzione endemica. Quella torrida estate del 1992 nei ricordi di Morgando, all'epoca parlamentare Dc al primo mandato

L’auto di Giovanni Falcone saltò in aria in un boato e tra le macerie c’è chi scorse già allora i calcinacci della Prima Repubblica, ormai in dissolvimento. Preludio di una estate rovente che culminò nella caldissima domenica pomeriggio di metà luglio quando un’autobomba uccise Paolo Borsellino, il magistrato che avrebbe dovuto prendere il posto di Falcone alla guida della Procura nazionale antimafia, e i cinque uomini della sua scorta.

“Mi chiamarono all’ordine da Roma, c’era da eleggere in fretta il Capo dello Stato”. Lo ricorda bene quel giorno Gianfranco Morgando, che alle elezioni del 1992 entrò per la prima volta in Parlamento battendo a suon di preferenze il suo maestro Guido Bodrato. A Torino Giovanna Cattaneo Incisa era diventata sindaco da pochi mesi, tenuta su da una maggioranza rabberciata composta da democristiani, liberali, repubblicani, socialisti e socialdemocratici. Non arriverà a mangiare il panettone, spodestata prima di Natale dal commissario Malpica.

Torino come Bisanzio sentiva nell’aria l’odore acre della fine di un sistema che l’aveva retta per cinquant’anni. All’ombra della Mole i primi smottamenti arrivarono con un certo anticipo, sulla scia dello scandalo Zampini che terremotò in modo trasversale la politica locale mettendo fine al decennio delle giunte rosse. E mentre le cassandre annunciavano il disastro, per i più bisognava solo far passare la nottata. Le cose precipitarone e quell'anno divenne l'emblema del collasso di un sistema e perfino il plot narrativo di una fortunata serie televisiva.

Le elezioni politiche del 1992 furono le ultime in cui gli elettori trovarono la Dc sulla scheda: il suo simbolo, lo scudocrociato le sopravvisse con alterne fortune in una nemesi che non servì ad altro che ad allungare la sua agonia. In Piemonte i due giovani “Gianfranco”, Astori e Morgando, entrambi legati alla sinistra del partito, vennero eletti, chiudendo la porta di Montecitorio in faccia a Bodrato, ministro uscente dell’Industria che venne ripescato solo dopo l’incoronazione al Quirinale di Oscar Luigi Scalfaro, a sua volta eletto in Parlamento nello stesso collegio di Torino-Novara-Vercelli. “Non prevedevo di farcela, contavo sulla tenuta della Dc e di collocarmi in buona posizione. Quell’exploit fu dettato, probabilmente, da una esigenza di rinnovamento generazionale che c’era già allora”. Più volte parlamentare, poi sottosegretario, per due mandati segretario del Pd piemontese, Morgando è cresciuto nella sua Borgiallo, seicento anime mal contate, nel cuore del Canavese. Radici ben piantate nella terra e nella tradizione popolare: “Che succede d’urgente, sto spaccando legna” si sentì rispondere un dirigente dem provando a contattarlo a pomeriggio inoltrato per sottoporgli una delle tante beghe di partito.

S’incontravano nello storico quartier generale di via Stampatori gli uomini di Forze Nuove, la corrente della sinistra Dc, quelli che in gran parte confluirono, pochi mesi dopo, nel Partito Popolare di Mino Martinazzoli, resistendo alle sirene di Silvio Berlusconi. I grandi vecchi “cui mi rivolgevo per dei consigli” erano Giovanni Porcellana e Gian Paolo Brizio, che furono rispettivamente sindaco di Torino nei primi anni Settanta e presidente della Regione Piemonte. A Palazzo Civico uno dei punti di riferimento era Bruno Fantino, tra le nuove leve si facevano largo Giorgio Merlo, Alessandro Risso, Fabrizio Abbandonati. Bodrato che per alcuni ancora oggi rappresenta “l’ultima autorità morale del cattolicesimo democratico” soleva utilizzare una metafora per dare un’immagine ai cattivi presagi: “La Dc è come un vetro infrangibile, una volta che si rompe finisce in mille pezzi e non sarà più possibile ricomporlo”.

“C’era la sensazione di essere a un punto di svolta, nonostante nelle istituzioni fossimo ancora fortissimi – ricorda Morgando -. Il direttivo del gruppo parlamentare, di cui facevo parte, s’incontrava almeno un paio di volte a settimana in turbolente riunioni cui spesso partecipavano i vertici del partito”. Una sorta di gabinetto di crisi permanente, mentre nelle province dell’impero ricorreva la domanda su che ne sarà di quella Balena Bianca che sembrava arenata, consunta prima di tutto da un cancro interno che la indebolì fino a renderla particolarmente vulnerabile ai fattori esterni, a partire dall’offensiva giudiziaria.

“Già negli ultimi discorsi di Donat Cattin prima della sua scomparsa, nel 1989, si coglievano tutti i presagi se non di una fine imminente, quantomeno di una crisi strutturale della Dc: un ceto politico onnivoro, l’assenza di riflessione politica, la balcanizzazione attraverso fameliche correnti, la sovrapposizione del partito con lo stato”. Lo ricorda Giorgio Merlo, tra gli allievi dell’ex ministro della Sanità e dell’Industria che in autunno pubblicherà per Marsilio una biografia di Sandro Fontana, per certi versi l’ideologo di quella componente. “Qualunque cosa succeda questa comunità dovrà restare unita” era l’augurio che si facevano alla fine delle riunioni in via Stampatori. Non andò proprio così: Mino Giachino passò da Forze Nuove a Forza Italia, qualcuno seguì Fontana nel Ccd, buona parte dei torinesi però andò con Bodrato e Morgando nel Ppi. La componente dorotea e andreottiana, guidata da Vito Bonsignore scelse il centrodestra, balzando negli anni tra lo scudocrociato di Casini e le insegne berlusconiane.

Nel ceto politico regnava un certo spaesamento, nell’elettorato c’era voglia di aria nuova. Anche in quegli ambienti che per anni erano stati un bacino inesauribile di voti per la Democrazia Cristiana ed erano soliti seguire le indicazioni dei maggiorenti locali. “Ricordo un particolare – dice Morgando – contrariamente alle mie attese ci fu una convergenza sul mio nome persino da parte di Coldiretti, allora guidata da Carlo Del Pero. Non mi sarei aspettato che potessero puntare su un outsider”.

Tra coloro che hanno saputo destreggiarsi con abilità tra le macerie c’è sicuramente Osvaldo Napoli, proconsole Dc in Val Sangone e capogruppo in Consiglio provinciale dal 1990 al 1995. Fratello di Vito Napoli, più volte parlamentare e capo ufficio stampa dei ministeri di Donat Cattin, anche lui era vicino alla componente di Bodrato, ma “già negli ultimi incontri emersero delle divergenze rispetto alla linea predominante”. Restò alla finestra quando venne fondato il Ppi e quando Enzo Ghigo, allora giovane drigente di Publitalia, iniziò a fare scouting per reclutare la prima linea berlusconiana in vista dell’imminente discesa in campo del Cavaliere, Napoli balzò sul carro. E fu la sua fortuna.