Il ponte e la favola in frantumi

Pagare al casello autostradale è un gesto rituale abitudinario. In vista delle barriere si inizia a cercare le monete per essere pronti, in modo impeccabile, a versare il pedaggio ai rari casellanti rimasti oppure, più facilmente, alla cassa elettronica. Certamente ci lamentiamo ogni volta in cui la Legge di Stabilità, un tempo di Bilancio, decreta l’incremento delle tariffe (la Pinerolo-Torino è aumentata del 70% in pochi anni) ma alla fine ci adattiamo poiché non possiamo fare assolutamente a meno di percorrere i veloci rettilinei d’asfalto.

Raramente ci fermiamo a riflettere e a domandarci chi siano coloro che ad ogni fine giornata contano le monete ricevute dai caselli, limitandoci forse a notare esclusivamente la moria del personale addetto al controllo delle barriere medesime. I drammatici fatti di Genova hanno improvvisamente alzato il coperchio posto, quale sigillo inviolabile, sul dossier “Autostrade”: un imbarazzante fascicolo che custodisce le tracce dell’ennesima grande beffa ai danni della nostra comunità.

Mentre tutti sembravano guardare altrove, da Palazzo Chigi infatti veniva avviato lo smantellamento neoliberista dei beni e delle attività statali. Il mare di asfalto, gallerie e viadotti che attraversano lo stivale è quindi da anni a cura di aziende, specializzate soprattutto nel fare lievitare le spese dei viaggiatori insieme ai loro sovente immeritati profitti.

L’assenza di informazioni in merito alla questione concessioni è a dir poco sconcertante, in particolare nulla è dato sapere sul capitolo ricavi e investimenti in capo a coloro che riscuotono i pedaggi della rete stradale. La tragedia genovese ha magicamente aperto i cancelli di quell’infinito giardino dove si nascondono le notizie la cui diffusione non è gradita a chi decide per tutti noi. Sulle nostre teste sono così piovuti dati raccapriccianti, seppur asettici poiché accuratamente privi di ogni commento giornalistico.

La società Autostrade infatti ha reagito con forza all’intenzione manifestata dal Consiglio dei Ministri di revocarle la concessione, indicando in 5 miliardi di euro i mancati introiti che la società stessa potrebbe patire nel caso questo avvenisse: dato scioccante (poiché sconosciuto ai più) quanto fondamentale per il calcolo della penale maturata conseguentemente alla scelta annunciata dal premier Conte.

Una involontaria autodenuncia del gruppo imprenditoriale, grazie alla quale in seguito sono emersi a mezzo stampa dati più precisi, consentendo agli italiani di scoprire come ogni anno i titolari di concessioni autostradali vedano ingrossarsi a dismisura il volume dei loro affari. E’ affiorata così la sconvolgente attualità di una norma non scritta e risalente agli anni ’80: il profitto è sempre a favore del privato, mentre il debito sempre si trasforma in sociale poiché pubblico. Invero nell’anno 2016 i guadagni accumulatisi nelle tasche dei gestori hanno superato i 4 miliardi di euro, a fronte di investimenti pari a soli 612 milioni (contro il miliardo previsto dagli accordi stipulati con il Pubblico). Il paradosso è assoluto: gli incrementi di pedaggi, a danno di pendolari e lavoratori, non si trasformano in manutenzioni o assunzioni ma in utili netti (vera manna dal cielo) a vantaggio di pochi.

L’esborso da parte degli automobilisti è quindi senza causa, inarrestabile, continuo, anche quando non è garantita la sicurezza delle strutture viarie percorse; così come nessuno “sconto” è previsto per chi si imbatta nelle infinite code dovute ad interventi maldestri da parte dei gestori stessi (cantieri in agosto, scelte progettuali inopportune, tappi viari mai risolti).

I Martiri di Genova (martiri dell’avidità capitalista) hanno una missione postuma da portare a termine. Un compito che potrebbe salvare in futuro altre vite: impedire la coltre di oblio che presto calerà sul Paese grazie al trascorrere del tempo. Il mito delle privatizzazione selvaggia ha mostrato tutta la sua fallace ipocrisia. Oltre alla retorica del Pubblico eroso dall’assistenzialismo, o dall’incapacità gestionale e dagli sprechi, per decenni si è assistito alla glorificazione degli imprenditori, tratteggiati sovente come paladini della meritocrazia nonché dell’efficienza assoluta a beneficio della comunità.

La realtà purtroppo è molto diversa da quello che la classe politica, ricattata da Confindustria e finanza, ha voluto rappresentare ad una popolazione ignara e spesso ingenua. Privatizzare infatti significa garantire una posizione privilegiata a chi si impegna esclusivamente ad incassare. Denazionalizzare costa molto più di una gestione diretta e il conto è sempre salato, ricadendo perennemente sulla testa dell’intera comunità (come bene dimostrano i recenti fatti del ponte Morandi).

È tempo che lo Stato torni a fare lo Stato e l’imprenditore faccia l’imprenditore curando i prodotti che offre al mercato, e non solamente lavorando sui rapporti politici che fanno parte di un’intricata ragnatela di dare/avere. Le narrazioni favolistiche inculcate agli italiani per decenni hanno permesso la svendita del patrimonio nazionale con l’approvazione fanciullesca dell’opinione pubblica: un furto autorizzato se non addirittura voluto dal derubato stesso (il popolo).

Questo mese è collassato un ponte, uccidendo persone e un intero quartiere, domani potrebbe essere invece un’appendicite trasformata in tumore nel nome del profitto di un ospedale assegnato ad imprese private. Forse è davvero ora di passare dall’età fanciullesca a quella adulta: maturare significa concedersi distrazioni di tanto in tanto senza però mai scordare i propri diritti e i propri doveri. Un’evoluzione sociale ancor più favorevole al lavoro delle tante aziende sane del nostro Paese. Impedire di cedere i beni comuni in cambio di un giocatore blasonato o vane promesse di modernità, si traduce nell’essere diventati maggiorenni: coscienti padroni di se stessi e non più schiavi da sfruttare. 

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