CURIOSITA'

A Torino tutto finisce in "ino"

Il capoluogo piemontese e la sua sindrome da suffisso. Lo dimostrano il gelatiere Pepino che lanciò il Pinguino e gli ultimi tre sindaci: Chiamparino, Fassino e Appendino. E il Verb(ano), con il suo referendum, non può che guardare a Mil(ano)

Sono convinto che tra le varie sindromi di cui soffre questo curioso bipede baravantano e rissoso che è il torinese, ce n’è una che, per singolarità e assoluta improbabilità scientifica, risulta particolarmente curiosa: si tratta della sindrome da suffisso. Tale tesi si fa risalire a qualche secolo addietro, quando il gelatiere Domenico Pepino (ino), nel 1884 venne da Napoli con l’obiettivo di far conoscere il gelato a Torino (ino) e, nel 1939, inventò il famoso “pinguino” (ino). Quasi parallelamente il torinese Francesco Cirio, dopo aver inventato l’inscatolamento dei pelati (ati), piombò a Napoli per sviluppare l’azienda e i napoletani ne divennero ben presto dei veri affezionati (ati). Dunque dai gelati ai pelati, in ogni caso tutta roba che riguarda i palati (ati).

Ancora oggi la sindrome da suffisso perseguita il torinese, soprattutto negli ambienti amministrativi della capitale sabauda. In una Torino che vanta il Valentino e annovera sindaci come Chiamparino, Fassino e Appendino (ino) come non si può restare ammaliati da tale casualità lessicale? Se è vero che la nostra è la città dei contrapposti, del bene e del male, dello yin e dello yang, del bianco e del nero, di Stanlio e Ollio (ci sono stati nell’estate del 1950), è pur vero che anche la parte più oscura di tale sindrome si annida nei suffissi più diversificati: Milano (ano, e vi assicuro che non esiste nulla di volgare in quelle tre lettere), e poi Verbano (ano) Cusio Ossola, che fa parte di quella provincia piemontese che sta per accorparsi alla Lombardia regalando agli straricchi cugini una delle più belle zone del Piemonte, anche se pare che tale sacrificio (icio) non turbi così tanto l’autoctono che continua imperterrito ad allenarsi all’uso del cilicio (icio), nel pericolo costante di venire identificato con un termine che ha lo stesso suffisso.

In fondo, nel 1940 ci aveva già pensato un romagnolo calvo con manie di grandezza a farci combattere tra cugini, così i nostri cugini, che hanno vinto, ci hanno portato via il Moncenisio, la Valle Roja e la Valle Stretta; nel 1948 ci pensò poi il signor Federico Chabod, con la scusa della francofonia (che poi era la stessa della Val di Susa, di quella di Lanzo, delle valli del Canavese e di tutte le alte valli occidentali delle Alpi) a strapparci un ulteriore segmento di territorio inventando la Regione Autonoma Valle d’Aosta che da quel momento divenne semplicemente un pezzo di Piemonte più fortunato. Così, mentre il Piemonte perde i pezzi, gli ineffabili figli di Gianduia se la cantano e se la suonano per raccogliere le briciole di improbabili olimpiadi invernali che – se assegnate – vedrebbero solamente brillare il potere politico ed economico di un nord est potente ma soprattutto coeso, una coesione storicamente inimmaginabile per il bogia-nen, individuo scarno e di poche parole molto più propenso alla resa che alla pugna. Capisco che qualche purista potrebbe anche obiettare citando l’origine del termine e tirando in ballo Cacherano da Bricherasio e l’Assietta; ma sono passati trecento anni e l’impressione è che il motto “noiautri da sì bogioma nen” si stia troppo presto trasformando in “lassoma perde”.

*Riccardo Humbert, autore televisivo, regista e scrittore

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