Cattolici popolari, ora l'autonomia

Come emerge in modo sempre più forte e trasversale, la presenza politica dei cattolici democratici e popolari nello scenario pubblico italiano ora richiede un sussulto di autonomia politica ed organizzativa. Una riflessione che, appunto, è maturata dopo anni di progressiva irrilevanza. E lo chiedono non solo molti vescovi, il Presidente della Cei, larghi settori dell’associazionismo di base e la stragrande maggioranza delle testate informative riconducibili all’area cattolica italiana. La richiesta arriva anche da fette crescenti di elettorato deluse dalle precedenti esperienze.

Certo, nessuno pensa, come ovvio e scontato, ad un partito confessionale o, peggio ancora, di natura clericale. Ma è indubbio che dopo il voto del 4 marzo, il sostanziale tramonto dei cosiddetti “partiti plurali” e il ritorno in campo delle identità culturali, la tradizione politica ed ideale del cattolicesimo politico italiano - seppur aggiornata e rivista - non potrà limitarsi a giocare un ruolo di puro spettatore ai bordi del campo. Del resto, è appena sufficiente prendere atto della profonda trasformazione che ha investito il Partito democratico da un lato e Forza Italia dall’altro per rendersi conto che la fine dei partiti plurali e il ritorno delle identità sono strettamente intrecciate nella fase politica che si è aperta.

Per fermarsi al Pd, è appena sufficiente ascoltare le dichiarazioni dei candidati alla segretaria nazionale - in particolare i due più accreditati, Zingaretti e Martina - per arrivare alla semplice conclusione che la”mission” di quel partito oggi, e domani, è una sola: ovvero, “ricostruire e rilanciare la sinistra italiana”. E, com’è giusto che sia, chi meglio di due esponenti che arrivano dalla filiera del Pci/Pds/Ds può centrare quell’obiettivo? Ogni altra presenza, esperienza e tradizione culturale è certamente importante in quel partito ma, com’è platealmente evidente a tutti, del tutto ininfluente ai fini della mission e del progetto politico perseguiti da quello stesso partito.

E, sotto questo profilo, trovo del tutto singolare la polemica che si è innescata in Piemonte dopo le primarie per la scelta del segretario regionale. Una polemica singolare perché l’“alleanza tra il diavolo e l’acqua santa” come è stato definito da più parti l’accordo tra il secondo e il terzo classificato alle primarie, risponde più a logiche di posizionamento che non ad un disegno politico strategico. Perché, come diceva il grande Mino Martinazzoli, “in politica la politica conta ma spesso conta di più l’organigramma”. Ecco, e del tutto legittimamente, l’accordo raggiunto nel Pd piemontese - sempre se questo sarà - risponde più a quella domanda di posizionamento e di organigrammi interni che non a riproporre una visione politica plurale di un partito che, di fatto, è stata liquidata con lo scorrere del tempo e l’inesorabile cambiamento delle fasi politiche.

Ma, al di là del “caso” piemontese del Pd, quello che è importante rilevare è che, dopo il governo giallo/verde, finché dura, l’autonomia politica, culturale ed organizzativa dei cattolici democratici e popolari è ormai un tema sul tappeto. È inutile negarlo con furbizie regolamentari o con escamotage dettati dagli organigrammi contingenti e di mero posizionamento interno ai vari partiti.

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