AL CAPEZZALE DELLA MOLE

Torino malata già prima del virus

Una città che pensava di aver superato la grande crisi industriale si ritrova a fare i conti con un declino economico e sociale. Tra le ipoteche del passato e le incognite del futuro deve "riposizionarsi". Parla Pichierri autore con Berta e Bagnasco di un saggio impietoso

Una città divisa tra ciò che era e ciò che ancora non è. Da locomotiva del miracolo economico a vagone di seconda o terza classe in fondo al treno. Qualcosa è andato storto, questo è certo, ma “Chi ha fermato Torino?”. È la domanda che si pongono Arnaldo Bagnasco, Beppe Berta e Angelo Pichierri nel saggio appena pubblicato per Einaudi che passa in rassegna la storia recente di una grande incompiuta, la Capitale finita ai margini, in quell’angolino in alto a sinistra dello Stivale, la città laboratorio che si è ritrovata a far da cavia a troppi scienziati pazzi della politica (e non solo). Torino non è stata infettata dal virus, il Covid ha solo accelerato una malattia che era già a uno stadio particolarmente avanzato: questa è una delle tesi di un testo che, per stessa ammissione degli autori, non fornisce risposte, piuttosto prova a offrire delle indicazioni, partendo da un’analisi di una trasformazione iniziata negli anni Novanta e probabilmente ancora in corso. “Individuo l’apice di questo fermento negli anni in cui la città preparava la candidatura alle Olimpiadi, poi è arrivato l’evento in sé che tuttavia ha rappresentato il canto del cigno più che un volano” spiega Pichierri, sociologo torinese e già presidente dell’Ires. Difficile dare la colpa alla kermesse olimpica, che semmai avrebbe potuto gettare le basi; piuttosto le responsabilità vanno ricercate in una “classe dirigente chiusa che non accetta il ricambio e non riesce a intercettare i cambiamenti della società, ormai sempre più veloci”.  

Nella diagnosi proposta dai tre autori pare che fondamentalmente la causa di un declino, che ultimamente appare inesorabile, risieda nella crisi del secolo ferrigno, cioè della grande stagione industriale dell’auto, di una élite costruita attorno alla Fiat e di una crisi d’identità che ha colpito l’ex one company town a partire dalla smobilitazione del Lingotto. Certo, forse si trascura il ruolo ancora centrale che l’industria dell’automotive ha per l’economia di tutta l’area metropolitana, assieme alla sua filiera di fornitori, ma è difficile non riconoscersi in un’analisi che sostanzialmente definisce Torino un elemento urbano senza una fisionomia politica, economica e sociale chiara. “Il dibattito pubblico su cosa si deve fare per Torino ha rivelato una notevole confusione e sovrapposizione delle agende: quella industriale, quella universitaria, quella turistica”. Torino, forse, è troppo piccola per poter essere compiutamente troppe cose? Di certo oggi è lontana dai poligoni industriali che hanno sostituito il vecchio triangolo di cui faceva parte anche Genova, e che oggi nascono unendo centri come Milano, Bologna, Modena, Padova, Treviso. “La città, ormai, conta se è al centro di una rete – prosegue Pichierri – e Torino è hub di una serie di reti importanti: una è l’automotive certamente. Ma bisogna constatare che in alcune di queste filiere o reti abbiamo perso posizioni. Anche il problema del rapporto con Milano in chiave competitiva è mal posto, anzi assurdo. Perché parliamo di due squadre che giocano in due campionati diversi e che dovrebbero confrontarsi non in una prospettiva di rivalità ma di complementarietà e integrazione”.

Nel testo si afferma la necessità di un riposizionamento di Torino, o meglio si dice che “bisogna trovare una Torino a misura di Torino”. Ma attenzione, questa non deve essere interpretata come una visione pauperistica dell’ex capitale del Regno, piuttosto “realistica”. “I cartografi la considerano una città di terzo rango ma non è affatto un insulto. È una capitale regionale che deve trovare un ruolo innanzitutto di guida dell’area metropolitana e poi all’interno del Piemonte, dove finora non è stata percepita come una risorsa, ma per certi versi come un corpo estraneo o, peggio, una sanguisuga in grado di succhiare risorse pubbliche a scapito delle altre province”.

Ma chi può togliere Torino dal piano inclinato su cui sta precipitando? È il tasto dolente in parte già affrontato di una élite urbana o classe dirigente che latita. E questa, per molti versi, è stata forse la principale promessa non mantenuta che s’imputa al Movimento 5 stelle e a Chiara Appendino. E non tanto perché alla fine il Sistema Torino è sempre lì, ammaccato più dalle ingiurie degli anni piuttosto che dal cambio di regime; quanto per l’incapacità di aprire le porte di Torino a nuove energie, spalancare le finestre a un vento nuovo che in fondo non ha mai soffiato. Non solo, “anche senza andare troppo lontano ci sono dentro la città pezzi di società che da anni aspettano di essere coinvolti e penso soprattutto agli stranieri che nella nostra vita pubblica non hanno alcun ruolo, nessuna voce in capitolo”. Così Torino continua a procedere avvitata su se stessa, attorno a un’élite ormai logora in attesa di trovare un’identità. Perché se non è ancora chiaro chi abbia fermato Torino, ancor meno lo è chi possa farla ripartire.

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