TRAVAGLI DEMOCRATICI

"Non sa cos'è né che vuole diventare"
Pd tra identità perduta e scissione

Non è liberal e neanche socialdemocratico, non rappresenta i vincitori e neanche i vinti della globalizzazione, non sta in periferia e neanche nella Ztl. Il duro compito di trovare una direzione prima che scegliere gli alleati. L'analisi del politologo Natale

Cos’è oggi il Pd? E chi rappresenta? Domande alle quali dovrebbe rispondere il congresso costituente, appena iniziato con una “falsa partenza” stando alle parole di Stefano Ceccanti, uno dei più autorevoli saggi messi nel Comitato che deve riscriverne la "costituzione" dem. Più facile definirlo per contraddizione. Cosa non è il Pd oggi. “Non è il partito delle periferie, che si sono spostate a destra, ma neanche quello della Ztl, affascinata dallo spirito liberale del Terzo polo” risponde il professor Paolo Natale che proprio in questi giorni sta lavorando a un volume – L’ultimo partito – che uscirà all’indomani delle primarie.

“Mi sembra una situazione parecchio confusa perché non si capisce bene cosa vogliano fare – prosegue Natale –. Sembra che ci sia un dibattito interno tra chi vuole andare a destra e chi a sinistra, ma completamente svuotato da ogni ragionamento”. E qui s’innesca anche lo psicodramma sulle alleanze: dimmi con chi vai e ti dirò chi sei. Quasi che a caratterizzare l’identità di un soggetto possa essere chi lo accompagna. “Prima di tutto il Pd dovrebbe ritrovare se stesso e poi decidere con chi stare” prosegue nella sua analisi Natale, un po’ politologo un po’ psicologo. Perché è nei meandri mentali profondi di questo partito che bisogna indagare per comprenderne l’avvitamento di oggi, in quegli antenati divisi tra governo e movimenti, responsabilità e opposizione. Come altrimenti spiegare una forza che è stata per anni in maggioranza, occupando alcuni dei ministeri chiave, senza però riuscire a intestarsi una battaglia: “Si pensi allo Ius Scholae o al Ddl Zan – prosegue lo studioso – una forza di governo dovrebbe essere in grado di raggiungere su di essi un compromesso e portarli a casa; invece hanno preferito radicalizzare lo scontro, nel caso del Ddl Zan facendoselo bocciare, oppure rinunciarvi, come sullo Ius Scholae”. Laddove invece sono riusciti ad approvare una legge importante come l’assegno unico per i figli a carico, dal giorno dopo sono andati a sventolare la bandiera altrui, con la difesa a oltranza del reddito di cittadinanza.

Secondo Natale con i primi tre segretari – Walter Veltroni, Pier Luigi Bersani e Matteo Renzi – il Pd ha provato a darsi un’identità, dopo non è stato più niente. Non di governo e neanche di opposizione, non socialdemocratico ma neanche liberal, “incapace di rappresentare sia i vincitori sia i vinti della globalizzazione”. Una federazione di correnti senza un’anima, senza una prospettiva che non fosse il potere per il potere. Ed è qui che si arriva a un’altra contraddizione: quella che a disegnare i tratti del nuovo Pd saranno uomini e donne della nomenclatura che l’ha portato a questo punto. “Trovo surreale che questo partito possa essere riformato da chi lo ha portato a questo punto, tanto valeva aspettare il nuovo segretario e il nuovo gruppo dirigente per aprire una nuova fase”.

E così è bastato poco a fare esplodere tutte le contraddizioni di questa isterica costituente: lo scontro latente nel Comitato dei saggi, dove i continui riferimenti a Lenin e Marx, assieme alle critiche nei confronti del mercato e del sempiterno “neo-liberismo”, anzi di ordo liberismo, colpevole di ogni accidente della storia (almeno secondo una fazione tutt’altro che marginale del partito) ha portato i riformisti a un passo dallo strappo. E ieri il sindaco di Bergamo Giorgio Gori, annunciando il suo sostegno a Bonaccini ha sentenziato: “Se vincesse Schlein lascerei il partito”. E lo spettro di una scissione si allunga.

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