Ciao Turin, mi vadu via (Ciao, Gil)

La recente scomparsa di mio padre lascia un grande vuoto nella nostra famiglia. Assenza importante accompagnata da una sensazione molto particolare, ossia quella che insieme a lui se ne sia andato un pezzo di Storia: quella vera, poiché fatta dalle comunità e dalle persone giorno dopo giorno. Gil era nato nel 1938 e aveva conosciuto, giovanissimo, il dramma della guerra.

Suo padre, mio nonno, cadde vittima dei rastrellamenti nazifascisti avvenuti nella sera del 6 giugno del 1944, una rappresaglia voluta in seguito ad un’azione partigiana organizzata dalla 41esima Brigata Garibaldi “Carlo Carli”. Prelevato a fine turno di lavoro, all’uscita dalla Nobel di Avigliana, fu trasferito in Germania e internato nei lager: liberato dai sovietici, rientrò ad Almese anni dopo, scoprendo di essere stato dichiarato “morto presunto” dalle autorità comunali. 

Nei lunghi anni di assenza del capofamiglia, mio padre dovette trasformarsi in un sostegno economico per sua madre (staffetta partigiana) con cui sfidò, in un giorno drammatico, il plotone di esecuzione tedesco in piazza a Condove (per un’ennesima rappresaglia). Il dopoguerra fu per lui un miscuglio di difficoltà, tra cui il non facile trasferimento dalla Valle Susa alla Torino operaia, e di speranze. Conobbe mia madre, che abitava di fronte a casa sua (in una via Tripoli immersa nei prati e nelle “boite”) mentre emulava il modello dei duri dal cuore nobile narrato dalle pellicole di Hollywood. Gil avrebbe voluto assomigliare anche ad artisti come Fred Buscaglione, di cui non perdeva un solo concerto nella sala da ballo di via Po, oltre che ai ragazzi dannati protagonisti di “Fronte del porto”: il film uscito nel 1954, interpretato da un grande Marlon Brando, che alimentò gli scontri tra le bande di ragazzi dei vari borghi cittadini.

In quegli anni Gipo Farassino era comunista, e mio padre spesso fischiettava i motivi delle sue ballate più belle. Alle giornate di allenamento di boxe in palestra, con insegnanti come John Vigna, si alternavano i turni in fabbrica sino a cogliere, qualche anno dopo, l’opportunità di diventare un gastronomo.

I tanti messaggi di commiato, che abbiamo ricevuto nei giorni dopo la sua scomparsa, sono davvero ricchi di ricordi, spunti di vita, aneddoti a tal punto da poter immaginare in quale Torino i miei genitori si fossero conosciuti. Una città che non è lontanamente immaginabile per chi oggi ha meno di 25 anni di età: solidale, seppur nel pieno del boom economico, e ricca di tensioni ed emozioni.

Il capoluogo sabaudo, nel dopoguerra, aveva perso del tutto lo status di antica capitale dei Savoia, e si stava trasformando nella città-stato della Fiat, della famiglia Agnelli. Tutto ruotava intorno alla fabbrica: dagli orari dei torinesi, pranzo e cena erano legati al suono di fine e inizio turno, ai trasporti pubblici, sino alle scelte in tema di viabilità dell’amministrazione comunale. Il sindaco medesimo, soprattutto per quanto concerne i mandati antecedenti a Novelli, era investito ufficialmente dai massimi dirigenti della Fiat.

Torino, negli anni della gioventù di mio padre, cresceva smisuratamente e i vecchi borghi operai di periferia, vissuti da torinesi e immigrati post Prima guerra mondiale, vedevano sparire intorno a loro le cascine settecentesche, insieme alle loro tenute agricole, per lasciare spazio ai condomini dormitorio che sorgevano come funghi tutto intorno alla fabbrica. Erano però anche anni di ribellione, di proteste sociali e operaie per ottenere diritti civili e il riconoscimento della fatica che comportava il lavoro alle presse, in carrozzeria, ovunque vi fosse la catena di montaggio.

Gli anni ’70 torinesi sono stati davvero unici, sia per l’intensità delle lotte che hanno attraversato piazze e vie della città, per le conquiste sociali (tra queste il diritto al divorzio), e sia per un ribollire di creatività nel campo culturale e artistico (doveroso ricordare i poeti/lavoratori, come Mario Castagneri, e i preti-operai): il decennio dei miei primi cortei del Primo Maggio (preso per mano) e della posa dei garofani rossi alle lapidi dei Partigiani uccisi. Sono poi seguiti gli ’80 con la marcia dei quadri della Fiat, in chiave anti rivendicazioni dei lavoratori e poi, immediatamente dopo, i licenziamenti in massa. Sino ad oggi, con la fabbrica che è un lontano ricordo di quel che era, e una metropoli confusa, senza più una identità su cui costruire il proprio futuro.

Qualche sera fa su LA7, nel programma “100 minuti”, è stato trasmesso un servizio (“Autostop”) curato dalla brava Giovanna Boursier dedicato alla lunga agonia della Fiat, sino alla sua trasformazione in Stellantis. Le interviste che la giornalista ha fatto a De Benedetti, e ad altri protagonisti di quelle stagioni passate, hanno narrato una Torino in cui dominavano ristrutturazioni aziendali e giochi di potere per la successione del dopo Avvocato. Due facce della stessa medaglia: quella solidale operaia e quella cinica del business.

La Torino di un tempo si sta dissolvendo, come una foto esposta al sole per intere settimane, insieme alla sua fabbrica, alle sue boite e ai protagonisti di tante battaglie sociali. Città che sparisce con una generazione che ha faticato tanto per mantenere la propria famiglia, ma determinata nel non abbassare mai la testa davanti alle prevaricazioni dei “padroni della città”. 

Ciao Gil, il tuo quartiere, quello in cui hai vissuto per tanti decenni, sta cambiando pelle rapidamente, e se potessi tornare tra qualche anno sicuramente non lo riconosceresti più. Sei oramai, come tanti altri tuoi compagni, parte della Storia fatta da ognuno di voi.

Per quanto riguarda il futuro, di cui oramai non devi più temere, si può solo sperare si diradino presto le nebbie dell’incertezza che si stringono sulla città: nebbie dense al cui interno è facile perdere la rotta. 

print_icon