Al centro i cittadini

Partire dalle città per creare uno sviluppo durevole, cioè che non si limiti a riprendere fili della crescita perduta, ma che rilanci pensando alle generazioni future. È questo l’ambizioso progetto che si propone il libro curato dall’ex sindaco di Bologna, Walter Vitali

Le città sono sempre più al centro del dibattito nazionale ed internazionale basti pensare che nel 2050 il 70% della popolazione mondiale si concentrerà nei centri urbani diventando sempre più luoghi di sperimentazione e innovazione. Secondo le Nazioni Unite le città possono essere il “rimedio alla crisi globale”, non a caso anche l’Unione europea, nei documenti programmatici per la politica di coesione 2014-2020, riconosce il ruolo di traino dell’economia svolto dalle città invitando ciascun paese membro a dotarsi di un’Agenda urbana nazionale. È a partire da queste riflessioni che si sviluppa il libro di Walter Vitali Un’Agenda per la città. Nuovi visioni per lo sviluppo urbano (edito da Il Mulino) in cui l’autore – ex sindaco di Bologna - sottolinea la necessità di rivedere le politiche di austerità per il rilancio del paese a partire da alcune scelte fondamentali: come l’adozione di politiche volte alla riduzione del consumo di suolo, ad una mobilità urbana sostenibile e ad un nuovo modello di governance urbana che guardi agli attori locali come portatori di conoscenze e capacità.

 

Il volume tocca temi quali la parità di genere, il ruolo delle città metropolitane, il welfare e la mobilità raccogliendo alcune delle proposte avanzate dal centro di documentazione e ricerca Laboratorio urbano che ha sede a Bologna e di cui l’autore è tra i promotori. Al centro delle proposte avanzate da Laboratorio urbano vi è l’idea di coinvolgere gli attori locali nel processo di definizione delle politiche pubbliche e di costituire così una rete di relazioni tra cittadini e città per scambiarsi buone pratiche da replicare nei diversi contesti locali. Sostanzialmente “ognuno deve avere la possibilità di entrare e uscire dallo spazio in cui i problemi del quartiere e delle città vengono affrontati e discussi”, un esempio che viene fatto nel testo è quello dello statuto della città metropolitana di Bologna che si articola in due fasi: quella partecipativa attraverso l’Open space technology e quella deliberativa attraverso il Town meeting dei cui risultati le istituzioni sono tenute a tener conto in base alla legge regionale della Regione Emilia Romagna. L’ampio coinvolgimento della cittadinanza ha dimostrato, secondo l’autore, che è possibile colmare le distanze tra istituzioni e cittadini attraverso un sempre più ampio coinvolgimento dei soggetti attivi del territorio che deve riguardare l’intero processo di definizione di un’agenda urbana nazionale.

 

Walter Vitali (a cura di)

Un’Agenda per le città

Nuove visioni per lo sviluppo urbano

Il Mulino, Bologna 2014

pp. 250, € 21

 

 

Ecco un estratto dall’Introduzione

 

2. Le città come rimedio alla crisi globale

 

La quantità dello sviluppo, e il modo di generarlo, sono inscindibilmente legati alla sua qualità. Ed è qui che si incrociano prepotentemente le città, che possono essere causa di gravi e insolubili problemi, oppure culla di un nuovo e diverso paradigma dello sviluppo a livello globale. Basta riflettere su pochi dati che risultano però essenziali.

 

Un secolo fa solo il 20% della popolazione mondiale viveva nelle città, attribuendo a tale termine un significato ampio che comprende anche l’urbanizzazione diffusa. Nel 2010, per la prima volta nella storia, sui circa sette miliardi di abitanti del pianeta la popolazione urbana ha superato quella rurale. Ha così avuto inizio un nuovo «millennio urbano», ed è previsto che nel 2050 il 70% dei circa nove miliardi di abitanti di tutto il pianeta vivrà nelle città, 2,8 miliardi in più rispetto al 2010. Si stima inoltre che tra il 2010 e il 2015 si vada aggiungendo ogni giorno alla popolazione urbana una media di 200.000 persone, e che il 90% di questo aumento si concentri nei paesi in via di sviluppo, mentre la popolazione urbana nei paesi sviluppati si stia avviando alla stagnazione [Un Habitat 2012, 25-26].

 

Durante la riunione scientifica internazionale Planet under pressure (Londra 26-29 marzo 2012), l’Accademia reale delle scienze svedese ha presentato ulteriori dati sull’urbanizzazione globale. Se non si riuscirà a modificare il modello di sviluppo delle nostre città, l’impronta urbana si espanderà di altri 1,2 milioni di chilometri quadrati, una superficie pari a quella della Germania, della Francia e della Spagna messe assieme. Più di due terzi delle emissioni di anidride carbonica del pianeta già ora riguardano le esigenze dei centri urbani. Si trattava di 15 miliardi di tonnellate metriche di anidride carbonica nel 1990, passate a 25 miliardi nel 2010 e destinate a balzare a 36,5 miliardi entro il 2030, se non intervengono modifiche. Con tutte le prevedibili conseguenze sull’ecosistema mondiale.

 

Il modo in cui le città sono cresciute nel mondo occidentale non è più né ambientalmente né socialmente sostenibile, e non può essere il modello di urbanizzazione dei paesi emergenti e in via di sviluppo. Per la sostenibilità globale è assolutamente necessario riprogettare le città. La domanda cruciale si pone allora in questi termini: cosa c’è di più potente del ripensamento delle città, fondamentale anche per salvare il pianeta, come stimolo alla domanda interna dei vari paesi per uscire dalla crisi e come affermazione di un nuovo modello di sviluppo su scala globale? La risposta è che non c’è niente più di questo che possa far ripartire l’economia mondiale nella giusta direzione. E sarebbe anche una via ben diversa da quella che a metà del secolo scorso contribuì a superare la crisi degli anni Trenta, il conflitto mondiale che alimentò la spesa pubblica per armamenti e che in futuro si potrebbe scatenare per il controllo delle risorse del pianeta, sempre più scarse.

 

È significativo che siano proprio le Nazioni Unite a parlare delle città come «rimedio alla crisi globale», e a proporre «un nuovo tipo di città del XXI secolo» basato su un concetto della prosperità a cinque dimensioni, il City prosperity index. Esso comprende, oltre alla crescita economica, le infrastrutture, i servizi sociali, la riduzione delle disuguaglianze compreso il contrasto alla povertà e lo sviluppo sostenibile. Si afferma ulteriormente un’idea dello sviluppo non più identificata con la sola crescita economica che era fondata esclusivamente sulla misura del reddito attraverso il Pil pro capite. Anche l’Ocse, dopo aver dato inizio nel 2004 a questo filone di studi, ha elaborato il Better life index che si basa su undici dimensioni della qualità della vita.

 

Il ripensamento delle città non può che avere un approccio fortemente integrato tra le varie politiche e tra attori diversi. Non sono coinvolti solo i decisori politici ma anche la cittadinanza in prima persona, senza la quale non è possibile effettuare i cambiamenti radicali che sono necessari, insieme alle competenze e al mondo produttivo e delle imprese. Gli investimenti diretti del settore pubblico hanno un ruolo fondamentale per stimolare la domanda in funzione anticiclica, soprattutto nei settori che producono più posti di lavoro. Ma le città possono promuovere anche investimenti privati stabilendo regole che creino nuove opportunità di mercato, come ad esempio nei campi dell’energia e della rigenerazione urbana.

 

Va fatta la scelta della città compatta contro la città dell’espansione incontrollata, per azzerare o contenere al massimo il consumo di suolo e lo sprawl urbano che compromettono le superfici coltivate, producono più esigenze di spostamento e maggiori consumi energetici [Glaser 2011] anche attraverso gli opportuni strumenti fiscali [Camagni 2013]. Per i paesi in via di sviluppo, le cui città vivono una fase di immigrazione turbolenta con la continua formazione di slums e favelas, è una sfida difficilissima che tuttavia bisogna affrontare.

 

L’altra scelta fondamentale è quella del risparmio di risorse naturali e alimentari, reinventando completamente il flusso verso le città di risorse – cibo, acqua, prodotti ed energia – che devono tutte provenire da fonti prossime e sostenibili. Questo comporta muoversi con decisione verso la città a zero emissioni di carbonio, con tutte le conseguenze radicali che sono necessarie a favore della green economy e del trasporto sostenibile.

 

L’approccio al lavoro e alla vita di tutti i giorni può essere rivoluzionato con la condivisione e la collaborazione nei campi più diversi (sharing economy), dagli spazi ai servizi domestici e di cura, ai mezzi di trasporto. Più in generale è l’innovazione urbana in quanto tale che può trainare una nuova fase dello sviluppo sollecitando anche la produzione di nuovi beni da parte di interi comparti produttivi come l’edilizia, i trasporti, l’Ict, l’energia, la salute e il welfare. Come ci ha insegnato Peter Hall [1998], la creatività delle città non è legata solo alla cultura e alle arti, ma anche alle innovazioni tecnologiche e industriali.

 

Sono le soluzioni dei problemi del vivere urbano, attraverso l’interazione tra le persone e l’utilizzo dei servizi e delle infrastrutture dell’informazione e della comunicazione, che rendono le città smart e ne fanno il luogo privilegiato dell’economia digitale [Commissione europea 2013]. Riduzione della povertà e affermazione di principi di eguaglianza, a partire da quella fondamentale tra i generi, possono essere affidati ad un processo di innovazione sociale che apre anch’esso spazi alla collaborazione tra pubblico, privato e soggetti no profit. La dimensione attiva della cittadinanza può farsi carico autonomamente della soddisfazione di esigenze collettive nei diversi campi, avanzando idee e progetti sostenuti da fondi pubblici e da forme di partenariato tra organizzazioni no profit e istituzioni.

 

Ma le città non sono solo urbs, spazi fisici sempre più dilatati e informi. Sono anche civitas, comunità di cittadini e cittadine, che incorporano la polis, la comunità politica dotata di strumenti di autogoverno. E proprio queste ultime due dimensioni delle città sono oggi chiamate maggiormente in causa dal fallimento degli Stati a darsi forme di governo mondiale adeguate all’enorme portata delle sfide che l’umanità deve affrontare. Il politologo americano Benjanim R. Barber [2013], nel suo libro If mayors ruled the world: Dysfunctional nations, rising cities, sostiene la tesi del passaggio dalla polis alla cosmopolis, per mettere le città al posto degli Stati e globalizzare la democrazia come antidoto alla sua crisi. I sindaci sono stati eletti per risolvere problemi, possono collaborare tra di loro senza contrapposizioni ideologiche, etniche e religiose, e per la cittadinanza sono «i loro vicini di casa». Tra l’altro le città già lo fanno, scrive Barber, attraverso le innumerevoli reti di città esistenti sui problemi più diversi. La sua proposta è quella di un parlamento mondiale dei sindaci.

 

 

Vi sono altri segnali che dimostrano come, a partire dagli Stati Uniti, si stia sviluppando un movimento di opinione pubblica che va nella direzione indicata da Barber. In The metropolitan revolution, Bruce Katz e Jennifer Bradley [2013] infatti scrivono: «Una rivoluzione sta attraversando l’America. Come tutte le grandi rivoluzioni, questa ha inizio con una semplice ma profonda verità: le città e le aree metropolitane sono i motori della prosperità economica e delle trasformazioni sociali». La loro tesi è che il circuito dell’innovazione per far uscire il paese dalla grande recessione è quello delle metropoli, dove un’innovazione può diffondersi alle altre producendo l’effetto «palla di neve». Anche loro danno molta importanza alle reti di città sia nazionali che globali. Si tratta della riproposizione per gli Stati Uniti e su scala mondiale dell’idea che la cittadinanza europea si dovesse costruire a partire dalle città. Idea che nacque e si sviluppò nella seconda metà degli anni Novanta con un contributo rilevante da parte del movimento italiano dei sindaci subito dopo la legge per la loro elezione diretta.