TRAVAGLI DEMOCRATICI

Rottamazione, un franchising che non va

Dal centro alla periferia il Pd è ancora in mezzo al guado, tra le nostalgie della vecchia Ditta e il nuovo partito che non c'è. Il nodo dei notabilati locali e le satrapie dei signori delle tessere. Affondo del senatore bersaniano Fornaro

“Sono due anni che Renzi è stato eletto segretario del Pd ed troppo facile, oltreché ingeneroso, scaricare le responsabilità sulle gestioni passate per le gravi difficoltà in cui versa il partito in molti territori”. Il non ci sto della sinistra dem all’accusa mossa da Luca Lotti parlando alla festa dell’Unità di Montelupo Fiorentino – “In passato il Pd non ha curato la formazione di una classe dirigente” – arriva, rapida e secca, con una nota del senatore Federico Fornaro. A tarda sera di una domenica incominciata male e finita non meglio nello scontro a distanza tra il pasdar della renzismo e il custode piemontese dell’ortodossia bersaniana, è proprio quest’ultimo ad allargare il ragionamento oltre le poche righe di agenzia, lo fa senza mai citare il sottosegretario giacché non ci stratta di polemica personale, bensì di questione che investe l’intero partito. Anzi, se non si risolve – è ciò che si pensa nella sinistra interna - rischia di travolgerlo.

 

La questione non può che far rima con rottamazione. “Quale? – chiede facendosi una domanda e dandosi una risposta, Fornaro – Quella che è stata una grande operazione mediatica, un efficace slogan comunicativo e non di meno uno strumento per far fuori gli avversari di Renzi. O quella che ha lasciato al loro posto gli amici e quelle che si sono affrettati a dirsi tali?”. In entrambi i casi, il pollice della minoranza è nettamente verso all’ingiù. È la domenica di Antonio Bassolino contro il quale Renzi sta cercando un candidato forte, ma sono ancora i giorni tormentati e imbarazzanti di Vincenzo De Luca, sempre in Campania, sempre per il Pd. “E sanno tutti chi ha sostenuto De Luca, chi lo ha voluto” dice Fornaro anche stavolta evitando di nominare in principale sponsor del governatore nella bufera, che poi è sempre Lotti. “Meglio aver rottamato D’Alema, e si sa che io non sono dalemiano, e tenuto De Luca? Me lo spieghino. È questa la rottamazione? Quella che ha fatto fuori alcuni e salvato altri?”.

 

Il senatore non ci sta a passare per nostalgico, neppure della Ditta: “Nessuno vuole un ritorno a vecchi modelli, la necessità di affrontare la forma-partito è necessario e urgente, siamo i primi a voler discutere e riflettere tutti insieme facendo autocritica” dice sfoderando un armamentario semantico, questo sì vecchio cimelio di una sinistra che fu. “Ma bisogna che l’approccio non sia quello di chi spiega che è tutta colpa di chi c’era prima. Anche perché la smentita è facile”. Ce l’ha pronta, il parlamentare che al Giglio Magico non perdona quello che ritiene il parto dei suoi spin doctor, ovvero l’appellativo di Vietcong affibbiatogli durante la battaglia, l’annunciato Vietnam, sulla riforma del Senato.

 

“Renzi aveva detto: non si può cambiare l’Italia senza cambiare prima il Pd. A parte la rottamazione di cui ho appena detto e fatta com’è stata fatta, a parte le direzioni in streaming, che cosa ha fatto Renzi per ambiare il partito? E dico sul territorio soprattutto”. Già, il punto è questo. Se il premier pare abbia deciso di mobilitare banchetti e gazebo per il 5 e 6 dicembre, con un’iniziativa che ricorda parecchio la tanto contestata epoca bersaniana, la sinistra punta l’indice su quello che Fornaro definisce “un marchio dato in franchising, spesso senza neppure valutare chi lo avrebbe preso”. È la nomenclatura dei territori, sempre più lontani dal Nazareno, ma “spesso ancora feudi di qualcuno. Se guardiamo a Torino e nella zona intorno, ma anche altrove, non mi pare che i signori delle tessere siano scomparsi” dice Fornaro, dicendo ciò che tutti sanno, ma molti fanno finta di non vedere. Come spesso si gira lo sguardo altrove per non vedere “quell’abbandono silenzioso che proprio il tesseramento e la partecipazione, invece, confermano. Che è apparso in tutta la sua allarmante chiarezza alla elezioni amministrative in Emilia Romagna”.

 

Altro problema da risolvere, per la sinistra dem che mettere in conto di vedersi bollare queste critiche come “le solite proteste dei soliti brutti sporchi e cattivi”, è quello della sovrapposizione degli incarichi. Incominciando dall’alto. “Il doppio incarico, segretario nazionale e premier è stato deciso da tutti nel 2007 e non è certo colpa di Renzi – spiega il senatore dem –. Ma questo non vuol dire che non si debba rivedere. Certo Bersani aveva annunciato che se fosse andato a Palazzo Chigi avrebbe lasciato la segreteria. Renzi ha deciso diversamente. Non solo lui, a dire il vero”. Già, la sovrapposizione di incarichi nel partito e nelle istituzioni non è un’eccezione. Fornaro non lo cita, ma lo stesso Davide Gariglio, segretario regionale e capogruppo a Palazzo Lascaris, è uno dei casi più evidenti, per rimanere in Piemonte. Lo stesso Piemonte dove la rottamazione renziana ha in due quasi settantenni i massimi suoi esempi ai vertici delle due più importanti amministrazioni: Sergio Chiamparino in Regione e Piero Fassino nel Comune del capoluogo. E poi quel brand dato in franchising al motto di “siamo tutti renziani”. Lui non lo è affatto, tanto da meritarsi il cappello a cono da vietcong. Ma tanti altri, magari per sfuggire in tempo alla rottamazione o per salire sul carro del vincitore con pure un bel po’ di tessere in saccoccia, sì. Magari anche pronti, oggi a rottamare le primarie. “Quelle non si toccano – avverte Fornaro – si devono modificare, ci vuole quell’albo degli elettori che chiediamo da tempo per evitare infiltrazioni politiche o peggio, ma restano un elemento fondativo del Pd. Senza primarie il Pd sarebbe un’altra cosa”.