IL DUELLO

“Un voto pro o contro Fassino”
Tutto il resto è noia

Nella competizione torinese non sono affatto emerse visioni alternative di città. Per il sociologo Manghi la partita si gioca su "quanto attrae o quanto respinge" il sindaco uscente. In un contesto in cui la politica è debole e la borghesia in disarmo

Le risate dei pennuti - almeno quelle - la campagna elettorale ormai agli sgoccioli che peraltro non s’è risparmiata nulla, è riuscita a scansarle. Come? Evitando, più per costrizione che per scelta, di ammiccare ai sindacati. E così la frase che Bruno Manghi, sociologo con un passato ai vertici della Cisl e poi ascoltato consigliere di Romano Prodi, aveva pronunciato un anno fa in un’intervista allo Spiffero pare oggi una verità scolpita nella pietra: “La politica che va dietro al sindacato sperando di ricavarne voti fa dei calcoli da far ridere i polli”. Tutto il resto, a partire dalle intenzioni di voto dei torinesi per domenica e le ragioni a sostegno degli schieramenti che portano Chiara Appedino e Piero Fassino a giocare una partita difficile e dall’esito aperto ad ogni eventualità, per  Manghi è soprattutto “noia”.

Per il sociologo che fu al fianco di Pierre Carniti anche nel momento dello strappo con la Cgil sull’accordo di San Valentino nel 1984 sulla questione della scala mobile, “questa competizione per il Comune di Torino – che egli osserva dalla sua casa nella campagna della Val Sangone senza mostrare particolare entusiasmo o interesse – mi pare che abbia alla base più sentimenti, anziché motivi concreti e reali di divisione tra i due blocchi. Uno sostiene la tesi del meglio continuare così, l’altro interpreta quel che in sintesi si può condensare nella frase: siamo stufi”. Oltre, Manghi non vede molto di più. Scorge, in verità, “un sempre più accentuato indebolimento della borghesia storica da un lato e della sinistra anch’essa storica dall’altro”, quel rimescolamento che ha portato Fassino e il Pd a ottenere più consensi nei quartieri “bene” del centro, della collina, in Crocetta e far esplodere il fenomeno Appendino nelle periferie, dove le truppe del sindaco (ed egli stesso) stanno cercando un non facile recupero battendole da mattina a sera.

“Non credo neppure che la finalità di dare una spallata a Matteo Renzi passando per Fassino sia il collante principale di quel fronte assai eterogeneo che si va formando attorno alla candidata dei Cinque Stelle, peraltro un personaggio sconosciuto di cui si sa poco, ma questo per molti non ha importanza”. A far convergere sulla Appendino anche buona parte degli sconfitti del centrodestra – Mario Borghezio e Roberto Rosso in testa – secondo il sociologo è un mero calcolo di sopravvivenza: “Se vincerà Fassino per loro sarà finita, mentre l’elezione della grillina potrebbe garantire la perpetuazione di una sorta di vuoto, di spazio per riorganizzarsi e sperare nel prossimo giro. Puro istinto di sopravvivenza”.

Assai scettico, invece, sul seguito degli appelli dei perdenti sul loro elettorato: “La Lega a Torino mi pare sia molto debole, quanto agli altri mi pare siano prese di posizione fatte per dispetto, ma non credo che potranno pilotare i loro elettori del primo turno”. Quanto al sindacato, premesso il rapporto non certo buono con Renzi, la sua estraneità alla contesa elettorale non sorprende affatto chi nell’organizzazione dei lavoratori ci ha passato buona parte della vita: “Questa non è più la Torino di vent’anni fa in cui c’era il tema del dopo-Fiat, quella dove nacque la proposta di Valentino Castellani. Adesso è la Torino che si gioca la partita del voto su quanto attrae o quanto respinge Fassino”. E “la voce della politica è debole”, ammette Manghi, il quale attribuisce anche scarso peso a temi divisivi come quello della Tav, sul quale lui è schierato da sempre sul fronte dei contrari. “Fassino ha più chance, ma ci potrebbero essere delle sorprese” dice guardando con distacco verso Torino. Se vi abitasse, “mah, forse non andrei a votare”.