INTERVISTA

"Appendino senza coraggio, prigioniera del peggior M5s"

Una democristiana, nell'accezione deteriore. Ha tradito il progetto civico consegnandosi mani e piedi ai Cinquestelle che sono la degenerazione della politica, inadatti a governare. Giordana, l'ex Richelieu della sindaca, a cuore aperto

“Se anziché una proposta civica ai torinesi fosse stata presentata una lista dei Cinquestelle e sui manifesti della Appendino con lo slogan L’alternativa è Chiara fosse comparso a caratteri cubitali il simbolo del movimento, avrebbe vinto Piero Fassino al primo turno”. Paolo Giordana, passato alle cronache come il Richelieu di Palazzo di Città, grazie alla felice definizione dello Spiffero, sulla cui poltrona al piano nobile ha portato la bocconiana di cui è stato scopritore e nella quale aveva riposto le speranze di una riedizione dell’Alleanza per Torino adeguata ai tempi, è al mare, in vacanza, lontano da quegli uffici che l’hanno visto dominus incontrastato fino a quando i contrasti, a lungo latenti, con il M5s sono deflagrati in un conflitto aperto che ha portato la sindaca a rinnegare il progetto originario, finendo nelle spire del grillismo d’ordinanza.

Una distanza quella tra la Liguria e Torino che va moltiplicata all’infinito per descrivere quella tra l’ex capo di gabinetto (ruolo riduttivo rispetto a quello reale esercitato nei quattro anni precedenti le elezioni del 2016 e nel primo anno di mandato) e la sua “creatura”. Un abisso, invece, quello con i Cinquestelle con i quali un rapporto vero e proprio non c’è mai stato. “Rocco Casalino mi chiamò una volta sola, gli buttai giù il telefono. Poi bloccai il suo numero, come avevo già fatto con quelli della Casaleggio e i vertici grillini. Con loro non ho mai avuto e voluto nulla a che spartire. Il mio progetto, che pensavo la sindaca avrebbe continuato a condividere, era quello di una lista civica, quella che i torinesi avevano votato”. Ma la storia, come noto, ha preso un’altra piega.

“Dopo qualche tempo di esitazione e di silenzio ho deciso di romperlo” ha scritto su facebook. E lo ha fatto (anche) per dire che “ho avuto la fortuna di conoscere Luigi Di Maio personalmente e di discutere di alcune cose concrete faccia a faccia. Ho avuto la netta impressione che, sebbene ci mettesse una buona dose di impegno, fosse strutturalmente limitato, una specie di scolaretto che in quinta elementare pensa di poter dare l’esame di maturità. Non è possibile affidare la nostra Nazione nelle mani di persone così improvvisate, che non si rendono conto del contesto e che non hanno gli strumenti per comprendere la realtà che li circonda”. Una presa di coscienza che è anche, per l’ex uomo ombra della sindaca e suo pigmalione, un’ammissione di un fallimento che riguarda proprio le aspettative riposte nella donna che lui ha scoperto, formato e portato a vincere contro Fassino, “uno degli uomini politici più intelligenti, importanti e capaci che abbia mai conosciuto”.

Dottor Giordana lei bolla i Cinquestelle come inadatti a governare, il suo rapporto con i grillini torinesi non è mai stato buono, per non dire che è stato pessimo. Quello con la Appendino si è interrotto bruscamente. Non è che dietro i giudizi di oggi c’è il risentimento di quanto le è accaduto? Insomma, dice queste cose perché è stato scaricato?
«No. Io non sono un uomo per tutte le stagioni, disposto a mutare opinione a seconda degli umori del padrone. So di essere tacciato come voltagabbana. Nulla di più ingeneroso e falso. Io non cambio idea, semmai cerco di seguire le persone che secondo me possono fare del bene alla cosa cui tengo di più, ovvero la mia città».

Quando e come ha capito che Appendino e il M5s potevano fare del bene a Torino?
«No, non i Cinquestelle. Solo lei. Perché fino ad un anno fa erano due cose diverse. Detto questo, il percorso è stato lungo. Io e Appendino ci siamo frequentati assiduamente per quattro anni, in lei ho trovato una persona dotata, perspicace, con molta volontà di studiare e prepararsi. Ogni domenica sera dopo cena, a casa sua, prendevamo tutte le delibere e le studiavamo, una dopo l’altra. Mi sono detto: questa è la persona che pur non avendo una grande esperienza politica, che non si inventa su due piedi, ha due caratteristiche rare: l’intelligenza e la voglia di imparare. Di fronte a una persona del genere ho capito che poteva interpretare l’alternativa civica di cui Torino aveva bisogno. Appendino poteva essere una nuova Castellani».

Addirittura? Non le pare un paragone un po’ ardito? E poi erano passati venticinque anni.
«Guardi che il momento non era tanto difforme rispetto a quello in cui fu eletto Castellani».

Appendino, però era una consigliera grillina, quella a cui Fassino indirizzò una della sue non fortunate profezie, Castellani era un professore tutto sommato slegato da vincoli di partito. Come ha pensato di poter liberare la candidata dai lacci di un movimento dalle regole molto ferree?
«All’inizio andò bene, quando si trattò di decidere il candidato sindaco lei si presentò all’assemblea e ottenne in modo plebiscitario l’investitura».

Appunto, la ebbe dal movimento, mentre lei dice che aveva disegnato per Appendino una strada civica.
«Vero, infatti le dissi che poiché i posti in lista erano quaranta lei avrebbe dovuto chiederne dieci per poter candidare esponenti della società civile: professionisti, operai, imprenditori, quello che un tempo fu niente di più e niente di meno il personale politico di Alleanza per Torino».

Le cose però sono andate diversamente, in lista sono finiti tutti attivisti, sconosciuti, i più senz’arte né parte, eletti in gran parte con meno voti di un’assemblea di condominio,. Cosa non ha funzionato?
«Lei prima chiese il placet a Casaleggio, il quale diede sostanzialmente via libera in quanto non c’era nulla nel non-statuto grillino che vietasse alla candidata sindaca di scegliere chi mettere in lista. Però poi si scatenò l’opposizione degli attivisti che le dissero: scusa Chiara, ma noi ci vogliamo candidare e tu ci porti persone che non sono mai state vicino a noi. In quell’occasione si palesò il settarismo e la chiusura del movimento. Lei non volle imporsi e decise di lasciar fare agli attivisti che scelsero i candidati».

La sua prima sconfitta?
«In parte sì. A quel punto presi atto della situazione e consigliai che almeno gli assessori fossero scelti fuori dal perimetro del movimento, in modo da assicurare competenze e libertà nelle scelte amministrative. Non avevo, però, fatto i conti con l’oste, ovvero con le mani che si alzano in aula mentre gli assessori non votano. Non avere una rappresentanza civica in aula fu un grande vulnus difficilmente risolvibile. La giunta non poteva che subire i giochetti del movimento, anche perché il sindaco aveva già smesso di credere nella valenza civica della proposta di guida della città».

Quella che secondo lei ha portato alla vittoria, altrimenti impossibile a Torino?
«Proprio così. Non è un caso che il simbolo del M5s è mai stato aggiunto solo nella seconda parte della campagna elettorale. La proposta era, mi si perdoni la ripetizione, Chiara. Per Torino non si voleva il M5s al comando, ma una lista civica che esprimesse il bisogno di rinnovamento sentito in larghi strati della città. Era quella la proposta vincente e le urne lo hanno dimostrato. Ricordo un’intervista in cui le si chiedeva cosa fosse per lei più importante e Appendino rispose: prima la città poi tutto il resto, compreso il movimento. Questo paradigma durò circa un anno, poi si è ribaltato».

Giordana lei non può non saperlo: ci sono stati interventi e pressioni della Casaleggio e dei vertici del movimento sulla sindaca, all’inizio giudicata troppo poco allineata? Dopo aver incassato il successo frutto anche dell’anomalia Appendino è vero che da Milano hanno tirato le redini?
«Ci sono stati sicuramente dei fattori a far sì che il progetto politico sostanzialmente civico cambiasse, finisse. Interni alla compagine grillina della Sala Rossa e, presumibilmente, anche esterni. Ma è un fatto che a Torino nel 2016 non ha vinto il M5s, bensì una lista civica capeggiata da Appendino. Dopo un anno è successo però che i Cinquestelle forti del fatto che non c’era nessuno in aula che poteva dire “noi siamo la barriera a garanzia dei cittadini”, hanno impresso la loro linea. Forse uno dei pochi che poteva ribattere, contenere queste spinte alla “normalizzazione”, riaffermando il carattere civico dell’operazione ero proprio io».

Parecchio inviso ai consiglieri.
«Certo. Eloquente fu quel che accadde un mese prima del G7. Ci fu una rivolta dei consiglieri contro di me che mi accusarono di avere scritto le tradizionali lettere di benvenuto ai ministri al posto del sindaco, cosa normale per un capo di gabinetto. Era un pretesto per attaccarmi in quanto non appartenente al movimento».

Un rischio che lei avrebbe dovuto mettere in conto da uomo abituato a navigare tra i marosi della politica,o no?
«Il mio peccato originale, se possiamo definirlo così, è l’aver pensato di fare a meno di una protezione politica, non per me ma per il successo del progetto civico. O, per dirla in maniera più brutale, aver creduto che Appendino l’avrebbe difeso così tanto da farsene garante, senza bisogno di altri. Invece il progetto civico è saltato».

E lei adesso dà giudizi pesantissimi sul movimento.
«Ma io non sono mai stato dei Cinquestelle, questo è noto. È una forza politica che considero strutturalmente inadatta a governare. Incarna la perversione della politica senza direzione, ma soltanto somma di divieti tenuti insieme dall’ideologia del Capo. L’ultimo gradino della degradazione della politica».

Quando è stato a fianco alla sindaca, nella stanza più potente di Palazzo di Città, la sua, avrà parlato con i dirigenti del movimento, con la Casaleggio?
«Non ho mai voluto avere rapporti con i vertici. Casalino mi ha chiamato una sola volta e gli ho tirato giù il telefono e poi bloccato il numero».

Addirittura. E perché?
«La vita è breve per perdere tempo. Mi aveva chiamato ancora prima delle elezioni perché pretendeva che mettessimo ovunque e ben in evidenza il simbolo del movimento sui materiali elettorali di Chiara. Cercai di spiegargli che era uno sbaglio, perché a Torino si vinceva con una lista civica, il M5s avrebbe preso sì e no il 20%. Fine dei rapporti con Casalino. Degli altri avevo bloccato già in precedenza i numeri».

Anche quello di Di Maio?
«Mai avuto il suo numero».

Senta Giordana, lei boccia questa amministrazione che nel rinnegare il progetto civico ha tradito il contratto con la città. Ma oltre alle critiche, quali proposte fa? Cosa occorre fare per Torino?
«Torino ha bisogno di un rinnovamento come quello partito con Castellani, che si è poi rafforzato con Chiamparino. Amministrazioni che, pur tra luci e ombre, hanno fatto tante buone cose. Adesso però è necessario uscire dal confine della politica classica e far entrare energie nuove. Torino è ancora ricca di idee, innovazione, energia e soldi. C’è bisogno di includere nella classe dirigente persone che sono rimaste fuori. Io faccio politica dal ’97 e sono rimasto sempre tra i più giovani e ho già 42 anni».

Lei sperava che l’elezione di Appendino fosse anche un’occasione per selezionare una nuova classe dirigente?
«Sì, speravo che questi cinque anni servissero per disboscare quella che è diventata una selva appannaggio dei soliti noti. Facendo entrare persone finora escluse, marginali, magari ostracizzate da un sistema di potere ormai logoro e decrepito. Abbiamo bisogno come il pane di nuove intelligenze, di spiriti critici, persino di eresie. Ma questo non sta succedendo. Anzi».

Una delle colpe della sindaca? Dica la più grave.
«Poco coraggio. Non lo ha avuto per affermare le proprie idee, giuste o sbagliate».

Solo questo?
«È democristiana, nella  peggiore accezione. Faccio un solo esempio, a suo modo emblematico. Nella sua ossessiva volontà di non dispiacere a nessuno è riuscita a dire che lei come sindaco di Torino è contraria alla Tav, ma come sindaco metropolitano è favorevole».

Si è appoggiata a persone sbagliate?
«Si è circondata da persone che non erano e non sono state in grado di dare consigli giusti e in più di una circostanza hanno lavorato pro domo loro, e di questo se ne sarebbe dovuta accorgere».

Lei, Giordana, quanto ha sentito il peso e il fiato sul collo della Casaleggio?
«Su di me nessuno: li ho bloccati appena arrivato. E anche questo l’ho pagato. Però, nei momenti cruciali si sono fatti sentire con Chiara. Cosa si sono detti non so. Lei conoscendo la mia opinione non mi parlava di quelle telefonate».

Torniamo agli sbagli di questa amministrazione, ne aggiunga uno all’elenco.
«Dare la colpa agli imprenditori perché non investono. Ti credo, quando c’è un vicesindaco che blocca qualunque cosa. Io avevo avviato open for business, che è rimasto lettera morta. Torino deve mettere a posto i conti e costruire i presupposti per attirare investimenti. Hanno sbandierato il circuito per sperimentare le auto a guida autonoma, ma il Comune non c’entra niente. Si deve tutto a un genio come Pierpaolo Antonioli che pur avendo il mondo a disposizione, ha convinto Gm a investire a Torino. Bisognerebbe fargli un monumento».

In questi giorni si continua a vociferare di caffè e incontri con figure che, come lei, vedono il civismo come soluzione a molti mali dei partiti. Giordana, continuerà a occuparsi di politica?
«Io ho un’unica grande passione: la mia città, per la quale farei qualunque cosa, ovviamente se il contesto me lo consente e il mio eventuale impegno non pregiudicasse il percorso che ritengo necessario per il bene di Torino. Quello che più mi ferisce non è ricevere critiche o contestazioni ma essere attaccato sul piano dei miei valori, a partire dalla mia fede. Credo sia una cosa inaccettabile che mostra intolleranza, indegna di una società liberale».

Il suo rapporto oggi con Appendino?
«Ci siamo incrociati in montagna a Balme, lei ha la casa lì. Rapporti cordiali, è un’ottima persona, ispirata da buoni sentimenti. È convinta di fare bene, ma un conto è esserne convinti e altro è riuscire a farlo». 

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