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Torino (s)vende quote di Iren e finisce all'angolo

Dopo la cessione del 2,5% di azioni, il capoluogo rischia una marginalizzazione nella governance e nei processi decisionali. A rischio una parte di investimenti e sponsorizzazioni. E intanto la partecipata "Rinnovabili" si trasferisce a Reggio Emilia

Quali saranno le conseguenze della dismissione del 2,5 per cento del pacchetto azionario di Iren da parte del Comune di Torino? Difficile immaginare che non ci saranno contraccolpi, come assicurato in Sala Rossa dall’assessore Sergio Rolando e dalla maggioranza pentastellata. Indipendentemente dalle minori entrate di cui godranno le casse comunali – checché ne dica il titolare dei conti, dall’operazione la Città aveva previsto di incassare 70 milioni e non i 61 che effettivamente sono arrivati – c’è un tema legato alla governance dell’azienda e, a cascata, agli investimenti. Mentre Torino vende, infatti, ci sono altri soci pubblici che si dimostrano aggressivi, a partire da Genova, la quale ora sta valutando di far entrare in Fsu, la finanziaria con cui gestisce le proprie azioni in Iren, altri soggetti per consolidare il ruolo di socio forte all’interno della compagine azionaria. Certo, c’è un patto di sindacato che per ora tutela il capoluogo piemontese, ma scadrà nel 2020 e dai movimenti in atto nessuno può assicurare che presto, con il formarsi di nuovi equilibri, Torino non rischi una progressiva marginalizzazione nelle dinamiche della multiutility.  

L’attuale consiglio di amministrazione è composto da tre esponenti indicati da Genova, due da Torino, tre dai sindaci emiliani, tre dal “patto” e altri due indipendenti. L’oggetto del contendere, ora, è cosa accadrà tra un anno. C’è da considerare che un nuovo eventuale assetto dovrà essere approvato da un centinaio di consigli comunali, tenendo conto del recente inserimento nella compagine di La Spezia e dei 25 comuni che le gravitano attorno, ma è evidente che la recente dismissione di quote fa perdere a Torino la posizione di primo azionista. Genova è aggressiva, ha fatto capire proprio con l’intervento del sindaco in Consiglio e con la votazione di una delibera che gli consente di indebitarsi fino a 130 milioni per acquistare altre azioni di voler diventare l’azionista forte. Il provvedimento per il momento è stato congelato poiché la quota venduta da Torino è andata sul mercato, ma il problema esiste come dimostra il tentativo di Chiara Appendino di inserire nell’operazione un investitore istituzionale come per esempio le fondazioni bancarie. A quanto risulta allo Spiffero, la Crt ha risposto picche, forse già troppo esposta con la vicenda Atlantia (il gruppo che controlla Autostrade per l’Italia, finito nel mirino dopo il crollo del Ponte Morandi), mentre la Compagnia di San Paolo ha nicchiato fino all’ultimo senza fornire risposta. L’enigma adesso è chi ha comprato quel 2,5%. Fondi? Speculatori? Oppure è un veicolo, solo transitorio, che consentirà di portare in dote a Genova questa quota, magari tra qualche mese?

Attualmente la città della Lanterna esprime l’amministratore delegato e potrebbe rivendicare anche il ruolo di presidente, soprattutto in virtù del fatto che gli azionisti emiliani sono frantumati e molto litigiosi. La sensazione è che sia interesse di tutti conservare lo status quo, anche a fronte dei risultati soddisfacenti della società e dei buoni rapporti personali costruiti da Appendino con il presidente di nomina fassiniana Paolo Peveraro, dimostratosi assai sensibile alle richieste della prima cittadina. Ma sarà lei, eventualmente, a decidere? Una nomina così importante potrebbe finire su tavoli nazionali e a quel punto per Peveraro difficilmente ci saranno speranze di un rinnovo.

Ma cosa comporta per Torino e il Piemonte un eventuale spostamento del baricentro in Liguria e a Genova? Innanzitutto c’è la possibilità che venga ridiscusso il piano di investimenti programmati fino al 2026, fondato fino a oggi su una perfetta tripartizione: 3 miliardi di euro destinati uno ciascuno ai tre territori. Per Torino ci sono interventi sulla rete di teleriscaldamento, l’acquisizione di Seta, e di San Germano a Pianezza. E poi c’è il tema sponsorizzazioni: 6,5 milioni all’anno di cui un terzo anche in questo caso destinati a Torino, dove a far la parte del leone è il Teatro Regio, che senza Iren rischierebbe grosso da un punto di vista finanziario.

Oggi, degli 8mila dipendenti di Iren, la metà sono a Torino. Secondo il capogruppo Pd Stefano Lo Russo che ha presentato una interpellaza sulla vicenda anche i livelli occupazionali potrebbero non essere garantiti in futuro. Il compagno di partito Enzo Lavolta, vicepresidente della Sala Rossa, cita l’esempio della società Iren Rinnovabili, “quella che gestisce il nostro patrimonio immobiliare e la cui testa, cioè la governance, è appena stata trasferita da Torino a Reggio Emilia, senza che la sindaca battesse ciglio”.

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