VERSO IL VOTO

"Spezzerò il dominio culturale", Meluzzi prenota l'assessorato

Correrà con la Meloni per il parlamento europeo ma l'eclettico intellettuale torinese punta a guidare la Cultura in una ipotetica giunta regionale di centrodestra. "Combattere egemonia e pensiero unico" con l'arma del sovranismo

“Sì, me lo ha chiesto Giorgia”, conferma Alessandro Meluzzi. Dove Giorgia è la Meloni e la richiesta della leader di Fratelli d’Italia allo psichiatra torinese, che ha attraversato la politica degli ultimi decenni al pari dei meandri della mente umana, è quella di candidarsi al Parlamento Europeo.

E lei, professor Meluzzi, comunista coi calzoni corti in via Chiesa della Salute, poi socialista, cossighiano, berlusconiano, nel frattempo massone e poi diacono e addirittura vescovo della chiesa greco-melchita, infine a capo di una formazione-meteora come il partito anti-Islamizzazione con approdo in FdI, ha risposto di sì, ovviamente?
“È un desiderio di Giorgia che mi ha offerto questa opportunità. Ci sto pensando”.

Sembra che la cosa non la entusiasmi. Non è che è vero quel che si sussurra, insomma che lei si presenterà alle europee, insieme ad altri nomi noti, da Guido Crosetto al favorito Fabrizio Bertot, ma in realtà il suo obiettivo sarebbe quello di fare l’assessore regionale alla Cultura se in Piemonte vincerà il centrodestra?
“Lo ammetto, sarei più sensibile eventualmente a un impegno per la Regione”.

Qualcuno avrebbe detto alla Sanità, per la sua professione. Invece la Cultura. Perché?
“Per combattere un’omologazione culturale che ho sofferto fin dalla mia adolescenza. Dai tempi di Nuova Società di Saverio Vertone, Baget Bozzo...”.

Una rivalsa a decenni di distanza.
“Ma guardi che le cose a Torino e in Piemonte non sono mica cambiate. Siamo sempre a soliti salotti, alla solita ventina di cognomi che girano qualsiasi cosa si faccia e qualunque argomento si tratti. A Torino c’è una compagnia di giro, da Gustavo Zagrebelsky a Carlin Petrini a Enzo Bianchi e i soliti altri, il solito giro delle fondazioni. Li ritroviamo dappertutto sia che si parli di Terra Madre, del senso della democrazia o la Douja d’Or”.

Quindi lei pensa che sarebbe l’ora di?
“Aprire la finestra a far circolare un po’ di aria nuova”.

Senza offesa, ma pure lei non è proprio un ragazzo.
“Per niente. Anch’io sono un po’ decrepito, però potrei essere un vecchio pazzo sovversivo in grado di agitare un po’ le acque”.

E come penserebbe di farlo, nel caso il centrodestra vada a governare il Piemonte e lei diventi assessore?
“Intanto sarebbe l’occasione nella vita per diversificare l’offerta, che vada oltre il Salone del Libro e il Circolo dei lettori e un’atmosfera un po’ plumbea che una certa sinistra radical chic ha calato sulla città. È una cosa che nella terza età con la barba e i capelli bianchi potrebbe piacermi. Anche se al momento mi pare solo un’ipotesi”.

Non ponga limiti. Però risponda con sincerità: le giunte di centrodestra in passato quel che lei vorrebbe fare non lo hanno fatto, giusto?
“Le giunte di centrodestra di Enzo Ghigo erano totalmente subalterne a quei salotti. Il risultato è che in quegli anni non è nata nessuna leva intellettuale che scalfisse anche minimamente un monopolio culturale e un’egemonia gramsciana costruita nel tempo a Torino e, di conseguenza, nel resto del Piemonte. Sempre la solita omologazione, la solita noia”.

Quindi una bella fetta di responsabilità ce l’ha anche il centrodestra.
“La destra che non si è preoccupata di far crescere una visione in qualche modo alternativa. Dal mondo cattolico a quello marxista passando per quello liberale e massonico è sempre stato un partito del politically correct. Anni fa andava da corso Marconi al comune di Diego Novelli alla cattedrale e fino all’Università. Oggi nulla è cambiato se non il fatto che è scomparsa la Fiat”.

Lei in quella sinistra ha mosso i primi passi politici, stava in via Chiesa della salute dove sono cresciuti anche Piero Fassino e Sergio Chiamparino che lei sconfisse nell’epico scontro di Mirafiori alle politiche del ’94.
“Quella sinistra non c’è più. Ormai c’è una sorte di palude conservatrice con gli stessi salotti, gli stessi volti che oramai sconfina in una sorta di Villa Arzilla. Oggi nella cultura c’è una malinconia che già prima era opprimente e adesso è assoluta”.

Poniamo che lei entra in giunta, come imposta il rapporto con Milano, spesso accusata di scippare eventi culturali a Torino?
“Questa competizione tra le due città mi pare una sciocchezza. Torino deve cercare di integrarsi con Milano, ripeto: trovo paradossale una competizione. Io fossi un intellettuale milanese anziché un pseudointellettuale torinese prenderei casa a Torino e andrei a lavorare a Milano. Attenzione, questo non vuol dire che Torino debba diventare un dormitorio di Milano, ma Torino per mille aspetti è più bella e vivibile e soprattutto che il MiTo deve diventare realtà. Così come ci sono in Piemonte città per molti aspetti più vivaci di Torino e per questo anche nella cultura bisogna uscire da un certo Torino-centrismo".

Intanto la cultura in Piemonte, lei dice, è nelle mani dei soliti.
“Parrucconi e cicisbei”.

Professor Meluzzi, lei adesso è un sovranista convinto, ma ammetterà che la destra ha sempre denunciato l’egemonia della sinistra nella cultura senza, forse, porsi il problema che la causa principale non era tanto la forza dell’avversario quanto la debolezza propria.
“Questa è una dimensione del passato. Il sovranismo non è un sogno fascista delirante ma spirito di autosopravvivenza dei popoli. La cultura di destra sovranista e antiglobalista è l’unica speranza per gli italiani e per i piemontesi”.

print_icon