IDEE

Il Piemonte è in deficit, anzitutto di classi dirigenti

Con il tramonto delle leadership novecentesche, Torino e la regione hanno progressivamente perso ruolo e peso. La debolezza delle élite e un establishment poco dinamico. L'analisi del professor Cantamessa che chiede più coraggio nelle scelte, a partire dalla Tav

Cinquant’anni fa la classe operaia andava in Paradiso, oggi nel Piemonte all’epoca regione industriale e locomotiva dell’economia che viaggiava sull’automobile e adesso a traino di altri territori del Paese, la classe dirigente sembra sperduta in un grigio Purgatorio. Un mancato ricambio generazionale che emerge sia nella politica, sia nel mondo dell’impresa. Tra il rivolgersi ad attempate riserve della Repubblica e l’indugiare nostalgicamente su figure consegnate ormai alla storia, sia pure recente, il problema sembra lontano da trovare una soluzione. Forse più facile cercare di individuarne le possibili origini.

Marco Cantamessa è professore ordinario al Politecnico di Torino, dove insegna Gestione dell’Innovazione e Sviluppo Prodotto. Dal 2008 al 2017 è stato presidente dell’incubatore I3P del Politecnico. Dal 2014 al 2016 è stato presidente di PNICube l’associazione italiana degli incubatori universitari, presiede Neva Finventures, il fondo di corporate venturing di Intesa Sanpaolo, uno dei principali operatori nel campo delle energie rinnovabili.

Professore lei concorda sull’esistenza di un problema di classe dirigente in Piemonte?
“Il problema c’è e non sta migliorando. Stiamo assistendo a una certa emigrazione non tanto di classe dirigente, quanto di potenziali suoi nuovi membri. Un’emorragia di laureati e persone che stanno iniziando a far carriera è abbastanza visibile. E questo non è certo un aspetto positivo”.

Quali le ragioni di questa crisi dell’elite che a sua volta è tra le cause della crisi dello sviluppo di una regione che ormai ha perso un primato e una posizione mantenuti per decenni?
“Credo sia un tema legato anche alla stessa cultura piemontese: mentre Milano è sempre stata una città più mercantile e orizzontale, la cultura sabauda è sempre stata più militare e verticale. Quel che ha sempre contato tantissimo nel nostro tessuto industriale è stata la grande impresa, che in un certo senso ha sostituito la monarchia. Quindi, nel momento in cui la grande impresa si disimpegna perché fa le sue legittime scelte, pensiamo a Fiat, ma anche a Ferrero, si fa un po’ fatica a ritrovare la bussola che una volta era rappresentata dai grandissimi che orientavano tutto il resto”.

Quindi ci si è cullati in quella monarchia della grande impresa che ad un certo punto è finita?
“Ci si può essere cullati, oppure la classe dirigente è stata educata dalla grande impresa a non cercare al di là del concetto di committenza. La questione la si può vedere sotto entrambi i punti di vista”.

Professore, recentemente sulla questione Tav alcuni imprenditori hanno ammesso abbastanza candidamente che “se ci fosse stato l’Avvocato avrebbe risolto la questione con una battuta”. Cosa la fa pensare?
“Innanzitutto che va metabolizzato il fatto che l’Avvocato non c’è più da quindici anni. Poi, basta con l’idea che Torino abbia sempre bisogno di una guida illuminata, mentre dovremmo essere noi stessi, ciascuno per la propria parte, a essere guide illuminate”.

Guardando alla politica non c’è da stare allegri: il centrosinistra deve affidarsi al settantenne Sergio Chiamparino, il centrodestra cerca ancora il candidato per la presidenza della Regione. La stessa forza innovativa che poteva rappresentare il M5s nella sua declinazione borghese di Chiara Appendino, alla prova dei fatti, si è dimostrata un flop. Insomma la classe dirigente anche qui non è messa bene.
“Mi fa uscire dal mio ambito di competenze, però mi pare abbastanza palese che Chiamparino sia il candidato che nel centrosinistra ha più chance di vincere, mentre qualunque altro giovane ne avrebbe di meno, e rischierebbe di bruciarsi. Nel centrodestra mi pare stiano emergendo divisioni anche ideologiche tra una visione liberale e quella strana cosa chiamata sovranismo”.

È altrettanto vero che salvo rari casi la classe dirigente esterna alla politica difficilmente è entrata a fare politica.
“Effettivamente sembra non abbia mai voluto sporcarsi le mani in politica più di tanto. Va tenuto conto che la politica è stata prima sbeffeggiata, poi è diventata un posto dove oggettivamente è molto difficile ottenere realizzazioni, dato che il processo decisionale è ingessato da mille lacciuoli”.

Si rischia di pagare questa carenza anche su una vicenda come quella della Tav?
“La Tav è essenziale per il Piemonte. Da sempre le linee di comunicazione sono quelle che determinano la prosperità dei territori. Se noi mettiamo un tappo al trasporto ferroviario, aggiungendo le prospettive di una crescente disincentivazione del trasporto su gomma, diventiamo un cul de sac terrificante. Liguria e Lombardia se la potranno cavare con i trasporti Nord-Sud, ma il Piemonte sarà penalizzato in maniera pesantissima dal blocco della direttrice Est-Ovest”.

Lei cosa ne pensa dell’ormai arcinota analisi-costi benefici?
“Che va considerata nei suoi limiti di analisi marginale. È un’analisi che dice: a fronte di una certa proiezione di traffici, conviene farla?  Ma il punto è che non considera l’impatto dell’opera stessa sul dinamismo economico e, quindi sui traffici futuri né del Piemonte, né dei territori che potrebbero ospitare l’asse Est-Ovest (Monaco-Stoccarda-Strasburgo). Il tema, quindi, è proprio capire l’impatto che la Tav può avere sul dinamismo economico dei territori, anche in un’ottica comparata. Qualora l’analisi costi benefici dicesse che c’è un passivo di 1 miliardo, bisogna valutare se questa spesa possa essere considerata come un premio di assicurazione per evitare il rischio di un significativo declino economico del Nord Italia. Vale la pena spenderli? Io penso di sì”.

Però il Governo, almeno nella sua parte Cinquestelle con il ministro Danilo Toninelli e lo stesso vicepremier Luigi Di Maio, ribadisce che alla fine la decisione sarà politica. La rassicura questo?
“Decisione politica non vuol dire arbitrio del Principe. Significa considerare tutte le cose che i tecnici non sono stati capaci di considerare nei loro modelli in modo razionale. Tornando all’ipotetico saldo negativo dei costi-benefici, nella teoria delle decisioni questo si chiama prezzo ombra: tutto quello che non c’è nell’analisi. Che però è importantissimo per il futuro di un territorio”.

Lei insegna al Politecnico da dove in passato ha attinto molto la classe dirigente, anche la politica come testimonia l’esperienza di Valentino Castellani. Ha perso questa capacità?
“Non credo affatto. Il Poli in questo momento, insieme all’Università, ritengo sia una delle forze più vitali della città, e questo ce lo hanno detto tutti gli attori con cui abbiamo interloquito quando è stato sviluppato il piano strategico dell’Ateneo. Però è anche vero che un sistema riesce a crescere se tutte le componenti crescono in modo armonico. Non è pensabile che il Politecnico risolva tutti i problemi di Torino. In questo momento l’idea del Poli è quella di svilupparsi in diversi ambiti della città con parchi tematici, da Mirafiori all’ex-Alenia, però è chiaro che quei parchi si svilupperanno se il Poli farà il suo lavoro, ma anche se il territorio è attrattivo. Se si entra a Torino e si vede il Palazzo del Lavoro che arrugginisce ogni giorno di più e se si scopre che la Tav non si fa, come si può pensare di attrarre insediamenti industriali o di ricerca e sviluppo? Se il territorio esprime dinamismo tutte le componenti riescono ad esprimerlo, averne una sola è come avere un motore che gira con la frizione bruciata.

Questo ruolo di aggregare le forze in campo a farle procedere in modo armonico non dovrebbe spettare alla politica?
“Io sono dell’opinione che chi muove le cose siano in realtà gli imprenditori. Anche in questo caso il paragone con altre regioni credo serva a comprendere: mentre in quei casi ci sono sempre state medie e grandi aziende che tiravano, da noi c’era la grandissima impresa, e poi i sub fornitori che ragionavano in un’ottica di committenza, più che a cercare clienti. E in molti casi accade ancora oggi”.

Lei si è occupato per molto tempo di start-up. Sono davvero il fulcro dello sviluppo o si eccede in una narrazione eccessivamente ottimistica?
“Credo che le start up siano per l’economia quello che i bambini sono per la demografia. Se non credessimo alle start up saremmo finiti, però non si può immaginare che inserite in un contesto poco dinamico ed economicamente sfavorevole, possano supplire a tutte le carenze del contesto stesso”.

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