IDEE

"Smettiamola con il piagnisteo e la politica del tirare a campare"

C'è una retorica consolatoria e vittimistica, presente anche nelle classi dirigenti di Torino e del Piemonte, che impedisce di cogliere i nodi reali della crisi e di progettare il futuro. Per Manghi, uno degli ultimi maître à penser, occorre investire su giovani e nuovi saperi

Com’è triste Torino. Ma poi lo è davvero e, davvero, ha ragione di esserlo? Sono soltanto i lunghi e interminabili postumi della salutare sbornia olimpica di tredici anni fa? Oppure la città, spesso trascinandosi dietro una regione pur dai tanti volti e altrettante differenze, soffre ancora dell’abbandono della grande fabbrica che ancora non è riuscita ad elaborare e superare, fornendo una delle probabili cause della fatica con cui il Piemonte cerca di ridurre la distanza che lo separa da altre regioni del Nord sulle quali anni fa primeggiava?

Bruno Manghi, sociologo, ascoltato consigliere di Romano Prodi per il quale elaborò parti importanti del suo primo programma elettorale, autore di libri sul mondo del lavoro tra i quali Declinare crescendo. Note critiche dall’interno del sindacato, scritto da chi al sindacato ha dedicato molti anni, nella Cisl al fianco di Pierre Carniti anche nel momento dello strappo di San Valentino con la Cgil, il 14 febbraio dell’84, sulla questione della scala mobile. Responsabile della formazione, poi a capo della Cisl torinese, Manghi è stato l’intellettuale di riferimento di Sergio Chiamparino nella stagione del governo della città di cui ha vissuto e osservato le trasformazioni più importanti, talvolta traumatiche, degli ultimi decenni. Una voce, spesso critica o fuori da vecchi schemi, la sua da cui ascoltare la risposta alla domanda sulla tristezza di Torino, ma anche ad altre sul futuro della città e della regione, senza tralasciare il peso del passato, più o meno recente.

“Torino è triste anche perché è anziana. C’è uno sbilancio demografico che non può certo portare una grande allegria. Dopodichè, non è che si è disperati. C’è apprensione certo, ma c’è una recitazione della tristezza e una malinconia esibita, spesso anche nelle classi dirigenti”.

Manghi, lei mette il dito nella piaga. Quando si parla della difficoltà del Piemonte e, in primis, dell’ex one company town inevitabilmente si finisce per concentrare l’attenzione sulla classe dirigente. Cosa manca a quella torinese?
“Se per classe dirigente parliamo di persone che per vari motivi lasciano un’impronta sulla vita degli altri, nella fascia di età che più o meno va dai 35 ai 50 anni io incontro, conosco, un sacco di gente in gamba, nelle fabbriche, nelle professioni, nel terzo settore. Questo mi fa dire che la base di una potenziale classe dirigente c’è”.

Quindi il problema dove sta?
“Credo anche nella risposta a questa domanda: possono trasferire queste persone le loro capacità, il loro sapere e anche la loro passione nella dimensione politica? Io dico che per adesso non mi sembra accada molto. Questo perché è la proposta politica che non attrae. Nella Fondazione Mirafiori ci sono 46 associazioni e centinaia di volontari, gente che lavora con passione nei settori più disparati. Sa che non parlano quasi mai di politica?”.

Colpa dei politici sempre più autoreferenziali e chiusi nel loro mondo?
“Parlerei di responsabilità del ceto politico, che deve essere attrattivo, invece si tira a campare. E non è un problema solo di età”.

Anche i giovani non sfuggono a questo approccio non proprio edificante?
“Diciamo che non sono pochi quelli che imparano presto e si adeguano”.

Intanto Torino e il Piemonte si sono fatti superare da altre città e regioni del Nord.
“Per affrontare la questione bisogna avere ben presente che Torino e il Piemonte sono due cose diverse. Se uno pensa al successo della provincia di Cuneo o alla sostanziale tenuta di Biella o, ancora, alla relazione tra il Novarese e la Lombardia si rende subito conto che il puzzle piemontese è molto complicato, quindi diciamo che i cambiamenti e le criticità riguardano inevitabilmente più l’area torinese, anche se non ne soni indenni né l’Alessandrino, né l’Astigiano. Ripeto, è necessario avere ben chiaro questo quadro, non mettiamo sempre insieme Torino e il Piemonte”.

Incominciamo da Torino, allora.
“Qui è successo ciò che è accaduto in molti posti del mondo, ovvero quando una grande esperienza industriale cetrata su un tipo di produzione entra in difficoltà di natura mondiale capita quello che molto più in gande è avvenuto a Detroit e in Inghilterra, succede come quando la Rhur cessò di essere siderurgica. Quando una struttura industriale importantissima entra in difficoltà rispetto a una situazione dominante, questo si riflette inevitabilmente sull’insieme. Di ciò ce ne siamo resi conto al termine degli anni Ottanta”.

Alcuni effetti farebbero pensare che forse sono mancate le risposte adeguate, le visioni proiettate nel futuro. È d’accordo?
“In parte. La giunta Castellani ha tentato di reimpostare almeno sul piano urbano la città, si è data da fare attraverso una sua strategia e questo si è riverificato con la prima giunta Chiamparino quando è stato chiaro che nel vuoto relativo lasciato dalla grande industria tradizionale, le amministrazioni avevano un ruolo da assolvere. E lo hanno in parte svolto. Affrontare le crisi, ridare un volto a una parte consistente della città, rendersi conto che non in sostituzione ma in concomitanza altre cose diventavano importanti: la cultura, il turismo, i servizi. L’amministrazione per certi aspetti ha supplito a dei vuoti inevitabili anche se la situazione di Torino quantitativamente e qualitativamente non è paragonabile alla grande trasformazione di Detroit”.

Intanto le trasformazioni indotte dalla globalizzazione, dal progresso tecnologico si sono susseguite sempre più rapidamente. Lei non crede che l’etica del lavoro, del lavoro ben fatto alla Faussone di Primo Levi nella Chiave a Stella, un valore fondante dei piemontesi abbia finito paradossalmente per legare al passato chi doveva approcciare in fretta il futuro?  
“Torino anche se trasferita su altri settori resta una città che ha un forte imprinting tecnico industriale e in parte questo ha portato, per esempio, l’indotto dell’auto a passare da essere semplice ancella della grande industria a diventare un comparto che serve aziende nel mondo. E poi, nessuno di noi quindici anni fa avrebbe detto che Lavazza avrebbe giocato un ruolo così importante anche nello spazio civile della città. La verità è che non c’è una desertificazione come qualcuno sostiene, c’è un cambiamento di baricentro con quello che resta dell’auto maggiormente orientato alla ricerca e all’esperienza più che ai grandi numeri di Mirafiori e di Rivalta e altre eccellenze in vari settori produttivi, ma anche della ricerca”.

Non meno importante, quest’ultima.
“Chi avrebbe detto vent’anni fa che il Politecnico e l’Università sarebbero stati così importanti? Ci sono centomila persone che fanno studi superiori a Torino, che non vuol dire che studiano per lavorare a Torino, ma che la città diventa una grande piattaforma che serve l’Europa e il mondo. Cose che all’epoca forse non vedevamo molto, ma che oggi sono un’eccellenza, un valore enorme per l’economia e il mondo del lavoro”.

Però il salto nel futuro, che è già presente, pare non trovare sempre pronta la città. È un’immagine esagerata, questa, oppure il problema esiste?
“C’è lo stigma di una grande popolazione che si era formata per la grande fabbrica a livelli professionali a livelli professionali relativamente modesti e quindi deve fare il salto per applicarsi ai nuovi modi di lavorare, ai nuovi saperi. Per questo credo davvero che oggi bisogna pensare a partire dai bambini e dagli adolescenti. Questo è il punto, questo è il deficit, che però si può colmare.

Torniamo un istante sull’etica del lavoro, a quel doverismo sabaudo che è stato per decenni la base della forza del Piemonte industriale, della Torino tutt’una con la fabbrica. Cosa c’è da conservare?
“L’essenza di questo valore adeguandola ai tempi. L’etica del lavoro propriamente intesa è da sempre forte, deriva da quella del mondo contadino dei barotti, venne trasferita nella città dalle campagne piemontesi e da quelle venete da dove arrivarono i primi immigrati. E poi la storia militare di Torino. Tutto pesa e tutto si trasferisce nel grande fabbricone. Certo, oggi questi valori fanno fatica ad applicarsi in un mondo molto più variegato ma non scompaiono”.

Liberazione nel e del lavoro, si diceva un tempo. Liberazione dal lavoro, in senso non propriamente positivo dice ora chi critica il reddito di cittadinanza. Lei che idea ha su questo provvedimento?
“Che in attesa che lo sviluppo eventuale risolva il problema, è necessario ci siano delle misure di contrasto alla povertà. Si può migliorare, modificare, ma da lì si parte, inutile fare polemiche. Bisogna avere un atteggiamento più sperimentale, senza posizioni prevenute e basate su giochi politici. C’è una povertà che va aiutata a prescindere dal legame col lavoro e una che si può riscattare col lavoro”.

Il Piemonte produttivo non è più quello di anni fa rispetto ad altre regioni del Nord e Torino, archiviato il Ge-Mi-To, soffre sempre di più un’inferiorità rispetto a Milano, subendo magari anche qualche scippo da parte dei lombardi. Pure l’Emilia-Romagna non scherza sul fronte dell’economia.  
“Essere vicino a chi va un po’ più forte fa bene, stimola. Siamo su un asse tra i più prestigiosi del pianeta e facciamo i confronti tra il di qua e il di là del Ticino. Questo è il culto della malinconia”. 

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