La cultura sull'Aventino

Torino è da sempre un grande laboratorio politico e culturale. Sin dal Risorgimento le strade e i caffè della città sono stati luoghi di dibattito per esuli e cittadini, nonché palestre politiche per gli intellettuali che sognavano rivoluzioni sociali, spesso risultate impossibili.

Il crollo attuale di qualsiasi punto di riferimento, così come del buonsenso comune, ha ridisegnato anche il capoluogo piemontese, cancellando la sua voglia di sperimentare insieme alla capacità di rinascere dalle proprie ceneri (come sovente accaduto in passato). Oggi la nostra città potrebbe essere raffigurata da un operaio disilluso e in perenne cassaintegrazione: privato della coscienza di classe e sovente preda delle insofferenze razziste, alternate a una profonda quanto deprimente rassegnazione.

In una settimana la metropoli subalpina è riuscita a disegnare involontariamente una perfetta sintesi del quadro politico nazionale, includendovi pure la rappresentazione del probabile futuro in cui presto verrà calata la nostra straziata comunità.

In sette giorni infatti è stato possibile assistere al funerale di un’egemonia politica e culturale, seppur già agonizzante da tempo, figlia del dopoguerra nonché dei movimenti di emancipazione degli anni ’60 e ’70. Caduta libera di ideali solidali e principi egualitari a vantaggio di una rinata classe dominante uscita da un’ibernazione durata settantaquattro anni.

Il corteo torinese del Primo Maggio ha raffigurato forse il momento più alto della grande confusione che alberga sotto questo cielo. La manifestazione, disertata dalla moltitudine che non lavora e che non ha niente da festeggiare, si è conclusa con la “tradizionale” carica delle forze di polizia a danno dello spezzone No Tav (ossia la componente antagonista di turno). Il paradosso, pronto però a diventare norma, risiede nella totale assenza di un imminente problema di ordine pubblico a giustificazione dell’uso violento degli sfollagente.

L’alibi per menare un po’ di manifestanti pare sia stato fornito da alcuni dirigenti del Pd, i quali lamentavano sberleffi e slogan ai loro danni provenienti dalle file dei ribelli valsusini. Nei commenti del giorno dopo qualche “Democratico” ha pensato bene di equiparare i militanti No Tav a quelli di CasaPound, non prestando però la benché minima attenzione al solito Ministro Bar dello Sport che ha battezzato con il termine “zecche” gli stessi manifestanti randellati (ricordo che “zecche” è il termine rituale con cui i neofascisti indicano i militanti dei centri sociali).

La cartina tornasole della disfatta culturale in atto, la resa di molti intellettuali al pensiero dominante, è racchiusa nei fatti torinesi dei primi giorni di maggio. Il libero pensiero si è schiantato contro un treno, lo stesso che condiziona la politica piemontese dal 1995 circa.

Peccato nessuno abbia messo una targa di bronzo sui muri delle case storiche di Venezia, magari nei pressi di un anticostituzionale tornello di accesso, con cui commemorare tutti coloro che si espressero un tempo contro la costruzione del Mose: costosissima barriera marina anti acqua alta dimostratasi in pochi mesi inutile e dannosa per la fauna lagunare. Una tragedia ambientale annunciata ma soprattutto un fortunato business per il cerchio ristretto dei grandi affaristi tricolori, esempio di quanto avverrà prossimamente in Valle Susa.

Le porte sono state aperte al fascismo da coloro che per decenni hanno voluto sacrificare sull’altare del neoliberismo la democrazia nazionale insieme a quella europea. Politici per cui welfare significava esclusivamente “odioso assistenzialismo”, e che conseguentemente hanno approvato decurtazioni di bilancio tali da destinare molte famiglie a una solitaria povertà. Deputati pronti a difendere le grandi opere e ad ignorare la pessima gestione del drammatico fenomeno migratorio, diventato in poco tempo un ghiotto business in termini di sfruttamento della manovalanza e degli sbarchi sulle nostre coste. Governi che non hanno mai pensato davvero a come tutelare coloro in fuga dalla miseria, e neppure hanno stanziato fondi per l’integrazione culturale delle tante nuove comunità italiane.

Estrema Destra in libero accesso anche al Salone del Libro. Ecco Torino ancora una volta all’avanguardia, seppur nel disastro della costruzione di una nuova egemonia culturale: quella della supremazia nazionale e della xenofobia.    

La kermesse libraria torinese scricchiola dai tempi della rimozione al comando di Rolando Picchioni, e l’essere ostaggio in questa edizione della casa editrice di CasaPound sembra la spallata finale alla sua travagliata esistenza (seppur di successo).

Sono molti gli autori e le case editrici pronte ad abbandonare la rassegna, nel nome del boicottaggio nei confronti di chi accoglie stand neofascisti. Una scelta curiosa poiché da sempre il Salone ospita in media una decina di spazi in cui espongono autori di estrema Destra: dato noto all’attento mondo antagonista piemontese, ma forse ignoto agi altri.

L’indignazione che in queste ultime ore ha colpito il mondo intellettuale progressista sembra il frutto di una trappola ben congeniata. Il Ministro al Bar dello Sport scrive un’autobiografia stampata dalla casa editrice pietra dello scandalo, e scoppia il caos. Un caos voluto poiché causa di una grande vittoria a tavolino.

Il Salone del Libro è da sempre una grande vetrina commerciale, ma al contempo anche un contenitore di confronto dialettico e proposte, nonché un’immensa piazza dove da sempre l’intellighenzia di Sinistra fa da padrona di casa: vetrina ora ceduta a CasaPound senza neppure “combattere”.

Mentre le prime ombre della sera calano su Torino, la Cultura sceglie di salire sull’Aventino e attendere che qualcosa accada. Un boicottaggio che ha il sapore dell’ultima amara sconfitta.

print_icon