IDEE & ANALISI

"Non c'è Piemonte senza Torino"

Lo sciovinismo da strapaese è assurdo e miope. La perdita di centralità del capoluogo (e delle sue classi dirigenti) inevitabilmente si ripercuote sulla regione. Asvisio, numero uno dei commercialisti, suona la sveglia, "altrimenti saremo terra di conquista"

“Torino sta perdendo rispetto al mondo, al resto d’Italia e anche rispetto al resto della regione. Bisogna chiedersi perché”. Una risposta, Luca Asvisio, presidente dell’Ordine dei dottori commercialisti torinesi dal suo osservatorio privilegiato sul mondo delle professioni e dell’economia al quale si rivolge per “Fare rete” come ha battezzato il forum in programma in città per l’autunno, ce l’ha. Ed è di quelle che a qualcuno non farà piacere sentire, come accade con le verità scomode. “La nostra classe dirigente non è stata in grado di preservare le proprie posizioni”.

E così le hanno occupate altri dal resto del Piemonte. È capitato con il cuneese Giovanni Quaglia al vertice di Fondazione Crt, capita adesso con una giunta regionale che, pur nel rispetto della rappresentanza dei territori, mostra una presenza meno incisiva di Torino, che pure vale come popolazione ed elettorato quanto tutte le altre province messe assieme.
“Vero. Il mio caro amico Giovanni ha dimostrato bravura che forse altri non hanno, probabilmente ha saputo intravvedere e disegnare un futuro per la fondazione che non fosse solo Unicredit. Ma più che lamentarci del fatto che i nuovi maggiorenti arrivano da fuori Torino, dovremmo capire la ragione di questo. Io credo stia nel fatto che i torinesi non riescono ad esprimere una classe dirigente di rilievo”

Giudizio a dir poco severo.
“Ma è così. Molto se non tutto sta nella costruzione del futuro: una persona più che dimostrare quanto è brava quando entra lo deve dimostrare quando esce. Quando si assume un ruolo ci si dovrebbe occupare del futuro, dei successori, costruire un dopo. Mi pare che spesso questo a Torino, sia nel mondo dell’impresa che in quello della politica, non sia avvenuto”.

Così adesso si arriva addirittura a quel che fino a non molto tempo fa pareva impensabile guardando alla provincia piemontese. Il cuneese Ferruccio Dardanello, esponente di peso nel sistema camerale e consigliere di Ubi Banca, ha scritto riferendosi all’elezione di Alberto Cirio a presidente del Piemonte che loro, i cuneesi, hanno mandato un figlio della loro terra a governare non solo Torino, ma tutto il Piemonte e che qualcuno si sarebbe rammaricato del fatto che il capoluogo di regione non è in provincia di Cuneo. Oltre il campanilismo e prossimi allo sciovinismo provinciale, verrebbe da dire. Però questa è l’aria che tira. E non è buona per l’ex one company town, non trova?
“Guardi, il problema è che abbiamo avuto la pancia troppi piena per tanti anni e non siamo stati capaci di pensare che ci si doveva rinnovare. Le classi dirigenti non hanno mai guardato alla crisi delle periferie, alle persone che faticano a vedere un futuro. Questo spiega, per esempio, il voto liquido e mobile che rapidamente passa dal centrosinistra ai Cinquestelle e dai Cinquestelle alla Lega. Una classe dirigente del futuro deve capire quali sono le reali esigenze. Piero Fassino, un bravo politico e un buon sindaco, ha perso perché evidentemente non le aveva colte appieno”.

Altri non sono stati in grado di cogliere occasioni, come quella della candidatura olimpica.  
“Anche in questo caso credo ci sia stata un po’ di supponenza nel dire: abbiamo tutte le strutture, quindi la candidatura la daranno a noi. Poi quando si è capito che non sarebbe stato così, alcuni, come il persidente della Camera di Commercio Vincenzo Ilotte e altri ci hanno provato, ma forse era un po’ tardi e la politica nazionale manifestava una volontà di guardare al Nord-Est, come del resto mi pare stia facendo mostrando preferenze verso il porto di Trieste rispetto a quello di Genova e al Brennero rispetto alla Torino-Lione”.

Dottor Asvisio, lei sostiene che la classe dirigente torinese, comprendendo in essa anche quella imprenditoriale, non è cresciuta come altrove. C’entra anche in questo caso l’essere stata per decenni la città della Fiat?
“Sì, credo che la presenza della Fiat non abbia permesso una crescita che c’è stata altrove. Forse non è un caso che oggi, di fronte alla globalizzazione, a Torino abbiamo in un certo senso ancora paura di metterci in società con altri per affrontarla. E questo timore rischia di portarci al porta al baratro”.

Milano invece…
“Milano ha avuto la fortuna di essere centrale, di avere dei governanti forse più aperti, ma soprattutto ha avuto le multinazionali che hanno riempito capannoni e uffici. Sarebbe il caso di interrogarci anche su questo e pensare che forse il progetto di integrare Torino e Milano valga la pena di essere considerato, anche mettendo da parte quell’orgoglio e quel senso di superiorità che non trova se non nel passato i suoi motivi. Oggi la finanza, le banche non sono più a Torino, c’è il grattacielo del Sanpaolo, ma solo quello. Vorrà pur dire qualcosa”.

Lei cosa dice?
“Che stiamo perdendo tutto”.

Tutto è perduto?
“Assolutamente no. Sarà pur vero che, guardando alla provincia Granda con la Ferrero, la Miroglio e altre aziende viene da osservare che probabilmente essendo lontana dal mondo torinese, segnato dalla mancanza della Fiat, ha fortificato in maniera maggiore il suo tessuto produttivo. Però su una cosa dobbiamo essere chiari: Torino non è il Piemonte, ma senza Torino il Piemonte non può essere. Non si può fare a meno di Torino per una rinascita della regione. Qui abbiamo tutte le strutture. Non è che qualcuno può immaginare di spostare il Consiglio regionale a Cuneo. Ben vengano le competenze dalle province, ma noi torinesi chiediamoci perché sta capitando questo".

Che momento è questo, per il Piemonte e per Torino?
“Quello in cui guardare avanti. Le capacità, le imprese avanzate ci sono, ma se non ci si mette insieme diventeremo terra di conquista".

Tra un paio d’anni si voterà per il sindaco.
“Ecco se continuiamo a ragionare su chi sarà il sindaco arriveremo morti alle elezioni. Serve piuttosto domandarsi come trovare delle soluzioni, poi chiunque sarà il sindaco non potrà che prenderne atto e agire di conseguenza. Questi due anni vanno spesi non a pensare chi sarà il futuro primo cittadino, ma quale sarà il futuro della città”.

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