Cosa ci è successo?

Quando abbiamo smesso di rappresentare una speranza per i produttori? Quando abbiamo scelto che doveva uscire dalla nostra agenda di priorità la sofferenza delle partite Iva (che l’Europa proprio in questi giorni con una direttiva ad hoc ci dice di tutelare), dei piccoli imprenditori, degli artigiani che sono stati falcidiati dalla crisi? Quando abbiamo deciso che il cosiddetto ceto medio, che in questi anni ha sofferto l’abbassamento della propria capacità di spesa e ha visto crescere le sue paure, non era più il soggetto delle nostre proposte politiche? Quando abbiamo smesso di comprendere che i ritardi dei pagamenti della pubblica amministrazione mettono in ginocchio le imprese? Quando abbiamo smesso di considerare la produttività della pubblica amministrazione la cartina di tornasole del un buon rapporto tra cittadini e politica? Quando abbiamo deciso che l’innovazione tecnologica, culturale, politica erano cose di cui non parlare? Quando la riforma della giustizia, a partire dalla separazione delle carriere per finire con i tempi dei procedimenti, è stata espulsa dalle nostre proposte?

Potrei continuare a lungo con queste domande. Sembra che la polemica interna al Partito Democratico e in generale al campo liberale e progressista sia una polemica fatta sui nomi. È colpa di tutti i dirigenti che compongono questo campo, di tutti, ma proprio tutti, coloro che non si riconosco nel Governo dei populisti e dei sovranisti se la percezione che si da all’esterno è di un semplice scontro tra gruppi di potere. Quindi anche mia. Ecco perché torno su proposte che vengono da lontano, su temi che solo per poco tempo sono stati maggioritari nel programma del centrosinistra, ma che di certo non nascono con la rottamazione e di certo non si esauriscono con il suo fallimento.

Riforme, riforme, riforme. Non per evocare una bulimia riformista che a volte sembra pervadere un po’ tutti, ma per tracciare quella cifra necessaria a riallacciare i rapporti con l’elettorato che oggi vede in Salvini una risposta alle sue paure, alle sue necessità e ai suoi bisogni. Risposte che collocano il leader della Lega dalla parte sbagliata della storia, ma che almeno non ignorano coloro che pongono domande di sicurezza (diritti e doveri, non solo diritti), di efficienza e di efficacia della pubblica amministrazione, di una sanità giusta, di rispetto per chi intraprende.

Se mi chiedete dove è finito il famoso 40% io vi rispondo così. Abbiamo abbassato la guardia e non siamo stati più capaci di guardare e dialogare con chi oggi si sente tra i non garantiti, di coloro che chiedono semplicemente uguaglianza di opportunità e non uguaglianza “a prescindere”: nel Nord come nel Sud del Paese. Abbiamo lasciato il campo a risposte semplicistiche che fanno credere che tutto è possibile, che si può andare in pensione “ognuno quando gli va”, che si possono avere dei soldi senza lavorare, che si può sparare senza essere puniti. Noi eravamo stati in grado di offrire un’alternativa a tutto questo, un’alternativa capace di coniugare libertà e responsabilità. Avevamo trattato i “produttori”, il ceto medio, da persone adulte e non da bambini: li avevamo messi al centro delle politiche. Gli 80 euro per venire incontro alla perdita di potere d’acquisto dei ceti medi, la riforma della pubblica amministrazione, l’alternanza scuola-lavoro per consentire a due mondi che non si erano parlati almeno di annusarsi (scuola e mondo del lavoro), i diritti civili per rispondere alla richiesta di protezione sociale di chiunque amasse, la riforma del terzo settore per dare piena dignità al privato sociale, e, soprattutto, la riforma delle riforme, quella dell’abolizione del bicameralismo perfetto (ci abbiamo messo troppo altro, bastava solo quella all’inizio) per posizionare il Paese sul meridiano della modernità.

Poi abbiamo avuto paura di perdere i nostri, chi ci aveva seguito da sempre, di non essere accettati come persone veramente di sinistra e intanto Roma, Torino e il Governo del Paese cadevano nelle mani di chi al fare privilegia l’immobilismo, di chi al sì predilige il no, di chi preferisce fischiare i falli piuttosto che giocare la partita. Una sorte di Sindrome di Stoccolma da cui dobbiamo svegliarci subito. Incalziamo sui temi che abbiamo abbandonato. Allarghiamoci, allarghiamoci, allarghiamoci senza paura della contaminazione, senza aver timore di non essere definiti di sinistra. Come se esistesse qualcuno autorizzato a darne a qualcun altro la patente a fronte di non si sa quale superiorità etica e morale. Andiamo a recuperare il rapporto con coloro di cui ci siamo dimenticati. Le povertà sociali ed esistenziali non sono più una questione di classe, ma crescono laddove non esiste ascolto della politica. Mi azzardo perfino a dire che potremmo anche non dare risposte, ma possiamo farlo solo se prima avremo ascoltato.

*Davide Ricca, presidente Circoscrizione VIII di Torino, già membro della segreteria regionale del Pd

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