Quei Sì di troppo

Immediatamente dopo la vittoria del tandem Milano-Cortina quale sede delle Olimpiadi invernali del 2026, i maggiori quotidiani nazionali (quasi all’unisono) hanno intitolato: “Vince l’Italia del Sì”; “Trionfa la nazione del fare”; “Olimpiadi: c’è un’Italia che vince”. Contemporaneamente, sul parallelo fronte Tav è intervenuto, sempre tramite stampa, il neo presidente regionale Alberto Cirio, attraverso una dichiarazione che non lascia dubbi: “Pronto a mordere chi vuole fermare la Tav (“il” Tav, nda).

La polemica mediatica post selezione della sede di gara del 2026 si annuncia favorevole per l’immediata riesumazione delle oramai note “Madamine”, le quali hanno subito colto la palla al balzo indicendo l’ennesima manifestazione di piazza. Le signore bene del blasonato salotto torinese hanno deciso infatti di darsi un nuovo obiettivo: fare in modo che Torino non sia emarginata dall’appuntamento olimpico meneghino. Una missione impossibile, simile alla realizzazione del Tav, ma soprattutto un richiamo pubblico alla giunta Appendino e ai veti posti alle grandi opere dall’amministrazione comunale pentastellata.

Le Olimpiadi del 2006 hanno sicuramente modificato il volto di Torino. Grazie all’evento sportivo internazionale, il capoluogo piemontese ha visto la realizzazione della prima linea di metropolitana nonché l’apertura di una miriade di cantieri che ha contribuito ad accompagnare la città fuori dal comparto Fiat, dirigendola verso il turismo e l’innovazione Hi-Tech post industriale (il significato di quest’ultimo settore produttivo non è chiaro ma emoziona il lettore).

Come spesso accade, la narrazione semi apologetica delle Olimpiadi invernali torinesi nasconde al pubblico il lato oscuro della kermesse stessa. L’albo d’oro olimpico ha ignorato volutamente la grande speculazione edilizia che ha deturpato per sempre l’ingresso della Val Troncea e del suo parco (Alta Val Chisone). Nessuno ha trovato nulla da ridire neppure sull’immensa colata di cemento che ha spianato il versante nord di una montagna pragelatese per fare posto ai trampolini di gara: piccole distrazioni a favore di una sfacciata propaganda del “Fare”.

L’euforia a cinque cerchi ha impedito di mettere in luce anche le opere di Cesana, incluse le tante polemiche che le hanno costantemente accompagnate, gettando nel dimenticatoio gli scavi effettuati tra l’amianto e l’abbandono delle strutture all’indomani della fine dei giochi stessi. Un abbandono riscontrabile in gran parte di quanto edificato ad hoc per le competizioni e l’accoglienza di atleti e giornalisti. Uno spreco che ha la sua celebrazione, la sua apoteosi, nel degrado strutturale delle palazzine ex Moi (oggi in parte occupate e dalle facciate decadenti).

Spenta la fiamma olimpica allo stadio Comunale, il sogno si è infranto sullo scoglio dell’enorme debito pubblico accumulato dalla Città per far fronte alle Olimpiadi stesse, nonché sulla rupe della precarietà dei posti di lavoro creati in vista dell’evento 2006. La crisi negli anni a seguire ha spezzato ogni illusione di ripresa economica, sia in città che nelle valli dove sono state disputate le competizioni.

Torino si è svegliata certamente più europea e moderna ma anche più povera. Credere in una replica della speranza nel 2026, in cordata con Milano e Cortina, era un’illusione oltre essere una trappola ben congeniata ai danni della sindaca a cinque stelle. Il capoluogo lombardo è decisamente autosufficiente e limitarsi a destinare qualche gara presso gli impianti subalpini, a fronte di un ulteriore impegno comunale, avrebbe significato appagare esclusivamente la nostalgia dei bei tempi andati e null’altro.

Il modello del “Sì” a tutti i costi, perseguito dalla bella borghesia cittadina, è un fenomeno curioso poiché spesso a braccetto con dichiarate simpatie per l’Europa ma pure per la giovanissima ambientalista Greta. Un mix terribile in cui si unisce l’allarme per il riscaldamento globale con il sostegno diretto alle grandi opere dal cemento facile: salvare l’umanità dalla plastica in mare diventa compatibile con una galleria lunga 57 chilometri, e magari pure con la spianata grigia un tempo sede dell’Expo milanese.

Statisti, uomini pubblici e opinionisti di rilievo si sono votati al business e agli interessi aziendali di imprenditori edili, scegliendo di sacrificare il buon senso e la cura dei beni comuni (oltre al futuro delle giovani generazioni) sull’altare della speculazione e del profitto. Le gare olimpiche sono un’occasione importante per il territorio designato ad accoglierle, ma a patto queste rappresentino un modo per riqualificare aree degradate, riconsegnare dignità a spazi abbandonati a se stessi, valorizzare porzioni urbane. Al contrario, quando essere sede di competizione sportiva internazionale si traduce in boschi abbattuti, colate di cemento ovunque ed esposizione debitoria insolubile per le istituzioni locali, il territorio beneficia di qualche giorno di fama per poi cadere nella depressione sociale.

L’alta velocità quando impatta le Alpi non può ignorare l’esistenza della catena montana, neppure correre verso Lione affidandosi a slogan acchiappa consensi dalla banalità assoluta. Occorre invece tenere conto del territorio dove si vogliono far sfrecciare i treni, adattando i progetti al “buon senso”, ossia alla sostenibilità economica e ambientale.

In passato avevo dubbi sulla dorsale cittadina denominata “Spina 3”, poiché non ritenevo sensato che un’autostrada attraversasse Torino da corso Orbassano a corso Grosseto, riproponendo una divisione in due dell’assetto urbano (al di qua e al di là) tale e quale al preesistente trincerone ferroviario. Oggi la percorro apprezzandone la pista ciclabile ma continuando a ritenere che una maggior sensibilità ambientale da parte dei suoi progettisti (e della politica) avrebbe di certo reso migliore la pessima qualità della vita di chi vi abita ai margini (migliaia di residenti).

Cemento e ambiente non vanno d’accordo, così come plastica e mare. Occorre che la politica torni ad affidarsi al prezioso interesse collettivo (ormai raro), alla capacità di ascolto e di sintesi, alla cura degli strati più deboli della popolazione. Ai cittadini invece il dovere di non arrendersi al plotone di esecuzione, evitando di mostrare il petto ai fucili tramite i “Sì” di troppo.

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