RETROSCENA

Ecco come Appendino e Di Maio hanno messo nel sacco il Pd

Ma quale gran rifiuto per rispetto dei torinesi! La sindaca aveva accettato la nomina a ministro (Viminale e poi la Pubblica amministrazione) ma voleva mantenere per un po' lo scranno a Palazzo civico. Mosse per far passare sotto traccia la Pisano

Altro che gran rifiuto ammantato dal nobile intento di evitare le elezioni anticipate a Torino. Chiara Appendino il ministro, anzi la ministra era prontissima a farla e il suo nome per alcune ore ha riempito una delle caselle più importanti: addirittura quella del Viminale. Sembra incredibile, ma è così: Luigi Di Maio per la sindaca aveva prospettato quel ministero che lui non avrebbe potuto occupare e che, con Matteo Salvini, è stato il fulcro della politica del Governo gialloverde e la war room del leader della Lega. Solo in un secondo momento, di fronte alla discreta ma ferrea propensione del Quirinale per una figura tecnica e non politica, la prima cittadina ha traslocato alla Funzione pubblica. Ma anche a Palazzo Vidoni  Appendino è passata come una meteora a causa della sua richiesta di mantenere, almeno per un periodo, la doppia carica: sindaca e ministra. Troppo, anche per la bocca buona del premier Giuseppe Conte e gli stomaci di ferro del Pd.

Insomma, dice una mezza verità Appendino quando spiega di aver declinato, non senza sofferenza, la proposta del capo politico: è vero, lei non voleva lasciare la poltrona di sindaco. Ma se questo le fosse stato consentito avrebbe molto volentieri tenuto anche quella di ministro. Non mancavano neppure i precedenti a sostegno del disegno dei grillini palesemente volto a premiare ma soprattutto a rafforzare Chiara nel suo ruolo di guida della città in prospettiva del voto del 2021. Non tanto quello di Antonio Bassolino, che fu ministro del Lavoro nel Governo D’Alema per un anno, dal 1998 al 1999, senza smettere di fare il sindaco di Napoli. A quell’epoca non erano ancora state introdotte le incompatibilità, varate nel 2011 dal governo Berlusconi. Appendino piuttosto prendeva esempio da due suoi illustri colleghi del passato: Graziano Delrio, nominato ministro da sindaco in carica di Reggio Emilia nel 2013, e Flavio Zanonato che nello stesso periodo sale al vertice del Mise essendo ancora alla guida del Comune di Padova. Entrambi non si erano dimessi, ma erano stati dichiarati decaduti: soluzione che ha consentito il passaggio della fascia ai rispettivi vice. Proprio quello che aveva in animo di fare Appendino: consegnare le chiavi del piano nobile a una persiona di sua fiducia. Chi? Sonia Schellino, attuale braccio destro dopo la defenestrazione di Guido Montanari? Manco per idea. Con un rimpastino la delega sarebbe toccata alla fedelissima Paola Pisano. Guarda un po' il caso.

Niente da fare: Conte non ne vuol sapere di quel doppio incarico che viene bocciato anche dai due capigruppo del Pd, Andrea Marcucci e persino da Delrio. I due, insomma, sono a conoscenza dell’idea di piazzare un carico da novanta sul futuro della città, teatro di una delle più brucianti sconfitte subite dal loro partito e ne informano il segretario. Al Nazareno, dunque, si sapeva cosa si stava prefigurando sotto la Mole. E l’amaro stupore suscitato dalla nomina di Pisano all’Innovazione, con tutto quel che ne potrà conseguire, sempre in vista del voto torinese, non può essere giustificato con un blitz dell’ultimo minuto. Si sapeva tutto, da quando erano iniziate la trattative.

A quanto pare Di Maio compie l’azzardo di chiedere il ministero per la sindaca forse già sapendo che una a dir poco forte inopportunità grava su quel doppio incarico. Intanto ci prova. E quando arrivano i no, i Cinquestelle virano su un altro nome, all’apparenza di secondo piano, almeno negli scenari romani. Pure di fronte a una mossa tanto chiara quanto allarmante per Torino, nel Pd nulla si muove e alla fine nessun ministro dem farà da baluardo all’assalto grillino.

La delegazione e la segreteria del Pd probabilmente pensano di aver risolto la questione quando, di fronte al niet al doppio incarico, il nome della sindaca esce dall’elenco. Ma è una sottovalutazione che potrà costare cara quella riservata alla proposta di Pisano in sostituzione di Appendino. Pisano chi? Sembrano aver pensato i negoziatori del Nazareno, forse non sufficientemente tenuti informati dai vertici regionali su quel che si stava rischiando. Com’è finita s’è visto.

Lo schiaffo, arrivato da Appendino con la nomina della sua assessora a ministro, fa barcollare il Pd offuscandone la vista sulle elezioni del 2021. Barcolla ma non molla, o almeno ci prova. Una bistecca sull’occhio livido e l’altro sulla spartingaia delle seconde file ministeriali, il tempo che resta è poco, la posta in gioco alta. Le difficoltà ancora di più. Al pastrocchio romano va aggiunto l’ingenuo strabismo del segretario regionale Paolo Furia nel chiedere, inascoltato, un ministro piemontese senza comprendere che l’attenzione e la richiesta sarebbe dovuta essere sulla Torino che andrà al voto e non in generale su tutta la regione. Così mentre il numero uno del Pd piemontese corre alla festa dell’Unità a Ravenna per cercare di avere da Nicola Zingaretti una pezza allo sbrego, ad oggi sono almeno un paio le ipotesi cui affidare un possibile, anche se parziale, recupero.

Ai vertici torinesi del Partito democratico, in queste ore stanno arrivando chiari segnali da parte di chi in città, oltre che nello stesso Pd, guarda a Stefano Lo Russo come al naturale candidato sindaco, affinché sia efficace e immediatamente percepibile la risposta alla manovra pentastellata, già motivo di eloquenti dichiarazioni di aperture da quei mondi delle imprese attenti a ogni stormir di foglia: figuriamoci di fronte a un ministero che sulla carta (per ora solo su quella) potrebbe risultare strategico per lo sviluppo della città. Senza troppi giri di parole, è sulla ipotesi di far assegnare i galloni di sottosegretario al capogruppo in Sala Rossa che stanno lavorando alcuni maggiorenti del partito. L’approdo a un dicastero per il professore ordinario del Politecnico, politicamente non etichettabile in una corrente di un partito nel quale in barba ai proclami zingarettiani contano come e forse più di prima, rafforzerebbe non poco il Pd nel dare quella risposta ai Cinquestelle e alla sindaca senza la quale pagherebbe ancor più l’immagine di una sua debolezza e credibilità. Il diretto interessato non pare particolarmente smanioso e non brucia dalla fregola di infilarsi nel tritacarne del toto-sottogoverno che in queste ore impazza nella Capitale.

L’altra ipotesi, che attiene più all’agenda romana che non a quella torinese, riguarda Silvia Fregolent. Diciamola tutta: gli attacchi più duri, arrivati con la velocità di una faina alla sindaca e alla sua giunta, sono sempre partiti in ambito parlamentare dalla deputata che, tra diaspore e girate di spalle, conserva con ogni buon diritto il titolo di renzianissima. Dito pronto sulla tastiera come fosse un grilletto, Fregolent non ne ha mai risparmiata una alla Appendino. Non pochi intravvedono in questo iperattivismo l’aspirazione a succederle. Per questa ragione una sua nomina avrebbe il significato di presidio della posizione, anche se proprio per la sua connotazione nei giochi interni al Pd non avrebbe la stessa forza dirompente.

Una lettura simile anche nel caso che un posto di sottogoverno andasse a Mauro Marino, senatore renziano, ascendente Boschi, con nel curriculum la sua partecipazione giovanile alla fortunata Alleanza per Torino di Valentino Castellani cui molti guardano con nostalgia e speranza per il quinquennio che si aprirà al termine del mandato della Appendino. Diverso, e per certi versi opposto, è il segnale che darebbe la designazione di Andrea Giorgis, al momento tra i più papabili a ricevere la promozione governativa: per la sua collocazione a sinistra nella geografia interna al Pd rappresenterebbe piuttosto una chiara ipoteca sui futuribili equilibri, quasi una fiche sulla scommessa di un asse giallorosso per le urne del 2021.

E così mentre i Cinquestelle portano avanti il loro piano su Torino, il Pd sta a guardare. Come le stelle di Cronin.

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