Politica industriale, quanti danni

Dopo i disastri di Ilva, Alitalia, la crisi di tante aziende come Whirlpool, Grancasa, Mercatone Uno e tante altre grandi e piccole, da più parti si parla di mancanza di una politica industriale dei governi italiani che si sono succeduti negli ultimi anni. Chi come noi è su posizioni antistataliste e favorevoli alla libera iniziativa privata, sarebbe ben felice che un governo non avesse una politica industriale e quindi non cercasse di indirizzare l’economia verso gli obiettivi scelti in maniera più o meno arbitraria dai politici. Il problema è che quando uno stato assorbe oltre la metà delle risorse prodotte dai propri cittadini e con leggi e regolamenti interferisce su gran parte dell’economia nazionale non si può parlare in nessun modo di mancanza di politica industriale. Uno stato che è il più grande acquirente di beni e servizi volente o nolente fa politica industriale. Si pensi alla sanità che è in gran parte in mani pubbliche. Se per esempio, per un qualche motivo, lo stato decidesse che i prodotti sterili come siringhe, guanti, ecc. debbano essere prodotti in un certo modo, ciò avrebbe delle ripercussioni industriali pesanti su tutto il settore. Le industrie vendono in gran parte allo stato e un blocco degli acquisti significherebbe la chiusura. Pensiamo alle banche piene dei titoli di stato e un governo che decidesse di non restituire i debiti, azzerando il valore dei titoli emessi: ciò implicherebbe il fallimento della gran parte delle banche italiane.

Quello evidenziato da questi esempi è vero in quasi tutti i settori dell’economia italiana e non si può dire che non esiste una politica industriale dello stato italiano. Volente o nolente lo stato italiano con le sue dimensioni pachidermiche fa politica economica. Quello che si può affermare con altrettanto sicurezza è che la politica industriale dei governi italiani degli ultimi anni è per lo meno confusionaria con l’apice raggiunto dell’attuale governo, che ha trasformato la politica industriale in politica antindustriale. Come detto ci piacerebbe un governo senza politica industriale, ma fra un governo con una politica industriale giusta o sbagliata e uno con una politica antindustriale preferiamo certamente il primo. E lo preferirebbero anche i cittadini che rischiano di perdere il lavoro per le follie antindustriali di politici che si beano di teorie che nulla hanno a che fare con la realtà.

In Italia sono aperti oltre 150 tavoli di crisi per un potenziale di nuovi disoccupati di 500000. Questo governo si limita a un nuovo prestito all’Alitalia, azienda impossibile da salvare, che non li restituirà mai, come fatto con i precedenti prestiti, affida la gestione della più grande acciaieria d’Europa ai magistrati, aumenta tasse e balzelli vari per spaventare ancora di più i possibili investitori sia italiani che esteri, minaccia la famiglia Benetton un giorno sì e un giorno no, come se questo non avesse ripercussioni sui lavoratori e la borsa, blocca gli investimenti pubblici, avrebbe voluto bloccare opere quali Tav e Tap e così via. Bisogna notare che non risulta che sotto la gestione statale le autostrade fossero migliori e l’atteggiamento così ostile nei confronti di una società quotata in borsa non può che scoraggiare eventuali investitori esteri che hanno paura di trovarsi un governo nemico. Notizia di ieri è la richiesta del fisco italiano a FCA di oltre un miliardo di tasse arretrate relative all’acquisizione di Chrysler nel 2014. Poi ci si chiede perché le aziende fuggono.

Non so se è ancora in vigore la tradizione che imponeva ai rampolli di casa Agnelli di passare del tempo in fabbrica sotto falso nome per conoscere da vicino la realtà dei propri operai. Forse non serviva a niente, ma sarebbe consigliabile simile apprendistato a molti degli attuali governanti.

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