DIRITTI & ROVESCI

"Politica urlata e incompetente, un grave danno per i lavoratori"

Dopo quarant'anni di militanza nella Fim, Chiarle va in pensione. La parabola di un sindacato di "nullologi" alla sfida della competenza. L'atto d'accusa a governi e amministratori locali: "Non hanno uno straccio di idea sul futuro di Torino e del Piemonte"

Quando la classe operaia andava in paradiso lui incominciava a fare il sindacalista. Nell’ultimo scampolo degli anni Settanta, Claudio Chiarle avvia da delegato di Fiat Avio il suo percorso da metalmeccanico della Cisl che lo porterà negli ultimi undici anni e mezzo a guidare la Fim di Torino e Canavese, ma anche ad essere una delle voci più autorevoli, riflessive ed ascoltate sui temi del lavoro e dell’economia. Martedì prossimo, raggiunta e addirittura già superata di qualche mese l’età della pensione, rassegnerà le dimissioni. A succedergli dovrebbe essere Davide Provenzano, già membro della segreteria. Del suo futuro dice che potrebbe essere nelle colline della natìa Nizza Monferrato, “dopo tante parole, il silenzio del vigneto”. Il “Bentivogli torinese” come lo ha ribattezzato chi, riconoscendogli capacità di analisi e distanza da uno spesso logoro stereotipo del sindacalista, ne apprezza le qualità accostandolo al segretario nazionale, di cosa da dire, però, ne ha ancora.

Chiarle, lei va in pensione, meritata come si dice. Che sindacato lascia e com’è cambiato, se è cambiato, negli ultimi anni non facili per il mondo del lavoro, ma anche per la crescente marginalizzazione dei corpi intermedi?
“In questi anni noi abbiamo lavorato per un sindacato delle competenze e della professionalità. Quando vai a discutere devi essere preparato”.

Sembra una banalità, ma evidentemente se lo sottolinea non lo è.
“È così. C’è stato un periodo dopo il ’93 quando si è fatta la riforma della rappresentanza sindacale, in cui e  per un bel po’ si è andati avanti con sindacati tuttologi e quindi nullologi: si pensava di conoscere tutto e non si conosceva quasi niente. Si era abbandonato l’approfondimento delle questioni del lavoro, i contratti, le qualifiche. Negli ultimi dieci, quindici anni si è ripreso a lavorare su una formazione molto forte e oggi c’è un sindacato delle competenze”.

Dicevamo dei corpi intermedi. Buona parte della politica li ha messi fuori dal dibattito. Quanto si paga questa marginalizzazione?
“Mi pare evidente che la nuova politica che avanza voglia fare a meno dei corpi intermedi e i risultati sono sotto gli occhi di tutti. È la politica urlata, incompetente ad aver disintermediato: non ha rinnovato la classe politica, anzi tendenzialmente l’ha peggiorata. Forse se recuperassero l’esperienza dei corpi intermedi probabilmente questa società ne avrebbe un beneficio”.

Però il sindacato non può chiamarsi fuori da responsabilità, da errori. Restando nel suo settore, quello metalmeccanico, la Flm fece una triste fine. Cosa si sbagliò per far naufragare l’unità sindacale?
 “Flm è finita nel 1984 insieme all’unità sindacale con la rottura di San Valentino provocata dalla Cgil, anzi da una parte visto che i socialisti della Cgil l’accordo lo firmarono. Da quel momento la Flm non è mai più risorta. Resta un’esperienza interessante in quegli anni di conquista, dopo il ’69”.

Ripetibile? Insomma, si potrebbe prefigurare un ritorno all’unità sindacale?
“No. L’idea dell’unità sarebbe come andare al pensiero unico. Il pluralismo sindacale è una forza. Con tre mastodonti come Cgil, Cisl e Uil, poi non si arriverebbe mai all’unità. Importante è l’unità di azione. Non si può non considerare che ci sono impostazioni diverse, un sindacalista della Cgil è molto diverso da uno della Cisl”.

Dipende dal riferimento politico, anche se ormai i legami dei sindacati con i partiti sono roba da libri di storia?
“Dipende dal posizionamento politico, ma ancor più da una cultura sindacale radicata da anni. Il valore sta nel cercare punti in comune e fare azioni insieme. Poi bisogna avere rispetto quando si fanno scelte diverse”.

Quanto ha cambiato la Fim-Cisl Marco Bentivogli?
“Bentivogli ha messo in risalto quello che noi stavamo facendo da anni: lavorare per competenze e guardare in prospettiva al futuro”.

Un cambio di passo rispetto al passato, ma anche rispetto a una certa immagine del sindacalismo.
“Ci sono due modi di fare il sindacato. Uno è quello di far paura alla gente per avere il consenso senza però indicare una prospettiva. L’altro è quello di guardare al futuro anche nelle situazioni di difficoltà e capire che il futuro si presenta ogni giorno e bisogna essere in grado di governarlo, imparando a conoscerlo. Pensiamo alle nuove tecnologie, alla digitalizzazione, ai big data. Si tratta di fare i sindacalisti di fronte alla fabbrica del futuro”.

Poi c’è sempre da fare i conti con la politica.
“Oggi è inefficace e anche un po’ incompetente. Abbiamo dei casi molto attuali, di giornata direi guardando in Piemonte”.

Lei si riferisce al tavolo su Comital e alle esternazioni dell’assessore regionale al Lavoro Elena Chiorino che ha usato toni durissimi nei confronti delle condizioni poste dal potenziale acquirente cinese.
“Gli assessori ai tavoli devono fare le mediazioni, non i pasdaran. Lascino questo ruolo a chi la vuole buttare in ideologia. Serve trovare soluzioni avvicinando le parti, non aggredire. Tanto più sbagliato se l’aggressione la si fa all’inizio”.

Politica sotto accusa, ma il mondo dell’impresa fa del tutto la sua parte?
“Oggi sentiamo sempre gli imprenditori che se la prendono con la burocrazia e su questo hanno ragione. Però sembra che non si possa fare nulla se dietro non c’è un finanziamento. Bisogna che lo spirito e il coraggio imprenditoriale emerga un po’ di più”.

Arcelor Mittal in Piemonte significa poco meno di mille dipendenti, negli stabilimenti di Novi Ligure e Racconigi e un vasto indotto. C’è l’attenzione dovuta su questa crisi?
“Mi pare che la politica e soprattutto le istituzioni, eccetto quelle comunali, in Piemonte si siano curate poco della vicenda Ilva. C’è la sensazione che pensino sia una questione molto nazionale o addirittura tarantina. La Regione non la vedo molto presente”.

Si ripete da più parti che al Paese manchi una politica industriale, è così?
“L’ultimo esempio di politica industriale vera risale al ’97 con piano del settore aeronautico che diceva cosa si sarebbe fatto in quel settore nei successivi quindici anni. Poi più nulla”.

Però c’è il sovranismo che fa leva anche e soprattutto sulle questioni economiche. Lo ritiene pericoloso?
“Oltre che pericoloso è pure sciocco, basta pensare alle sortite di Matteo Salvini sulle nocciole per la Nutella. Non si sa se ridere o piangere. Purtroppo questo sovranismo è fatto di non conoscenza, di incompetenza ed è devastante”.

Parliamo di Torino, che non è più la città della Fiat…
“Su questo dissento”.

Lo è ancora?
Torino rimane una città in cui Fiat è ben presente, c’è Cnh, ci sono ancora 23mila dipendenti, non si può dire che quell’azienda non pesi più e non condizioni più la città. Certamente non più con i numeri di una volta”.

Restiamo su Fca, lei si è espresso positivamente sull’accordo con Psa. Perché le piace?
“Intanto, non ci sono modelli di auto che si sovrappongono e quindi non possono che esserci che benefici. Poi è una sinergia a cui non si poteva sfuggire se si voleva rimanere competitor mondiali nel settore dell’automotive in un momento di crisi”.

Torniamo alla città, la spaventa il futuro affidato all’amministrazione dei Cinquestelle con la sindaca Chiara Appendino?
“Dopo quarant’anni di sindacato e più di undici da segretario non mi spaventa più niente. Però questa amministrazione mi preoccupa molto. È una giunta che in questi anni ha viaggiato senza un’idea chiara, occupandosi di questioni marginali come i monopattini. Quando governi devi dare risposte alla maggioranza della città, non toglierti sfizi ideologici. Chi governa la città non ha uno straccio di idea sullo sviluppo industriale di Torino. Questo è agghiacciante”.

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