Più "Tosca" per tutti

Tutti gli anni, regolarmente, si ripetono alcuni riti arcani risalenti alla notte dei tempi, quando i nobili erano tali e tutti gli altri erano nessuno. Cerimonie dalle radici che affondano nel passato; nostalgie verso un ancien regime impegnato soprattutto nell’escludere, nel dividere la società tra chi “Conta” e chi appartiene alla “Perniciosa plebaglia”.

La Prima della Scala (di Milano) è senza dubbio annoverabile tra i culti appartenenti alla tediosa epoca in cui le monarchie si reggevano sulle ingiustizie e sulle ineguaglianze. Un evento che si colloca all’opposto dell’idea della “Cultura per tutti”, accessibile a chiunque abbia il desiderio di ampliare il proprio bagaglio culturale. Appuntamento in sostanza escludente, poiché aperto a pochi e interdetto ai più. Solamente i benestanti possono sedersi nella platea del teatro lirico, trasformando così una proposta d’arte in un momento di stole di visone, di gioielli e di continuo “Mettersi in bella mostra”.

Il paradosso riguarda gli enti lirici finanziati, seppur malamente, dal Pubblico (dalla collettività quindi) ma la cui fruizione è limitata ai detentori di alti redditi. Forse, alla luce di ciò che la Prima rappresenta, non è del tutto incomprensibile il tradizionale lancio di uova marce, in direzione del facoltoso bel mondo della Scala, da parte di operai e disoccupati (prassi caduta in desuetudine solamente da un paio di anni).

I limiti di una Cultura divulgata solamente per chi siede in alto sulla scala sociale emerge ancor più quando viene rappresentata l’opera “Tosca” di Giacomo Puccini, con un allestimento ricco di significati e richiami romantico/risorgimentali: un vero peccato chiudere le porte del Teatro alla Scala a studenti e cittadini non abbienti.

Mario Cavaradossi, il protagonista maschile del libretto firmato da Giacosa, è il classico eroe ribelle. Pittore di fede bonapartista, paga con la fucilazione le speranze riposte nella prima Repubblica romana (caduta grazie all’intervento delle forze monarchiche europee, tra cui i Borbone).

Nell’opera che ha aperto la stagione della Scala i carcerieri di Castel Sant’Angelo, una delle prigioni politiche dello Stato Pontificio, indossano divise dai lunghi cappotti in pelle color grigio scuro, interrotto da ampie pennellate rosso sangue. Come è noto, Tosca sul finale si getta dagli spalti del castello, e il suo volo verso il Tevere è stato raffigurato dal regista con il grido straziante della donna, avvolta nei suoi abiti svolazzanti: un’ascesa verso il cielo, anziché una caduta, trasformatasi presto nel tragico garrire del tricolore italiano (bandiera innalzata grazie al sacrificio mortale di tanti giovani idealisti).

La proposta scenografica è stata di grande effetto (anche assistendo allo spettacolo attraverso lo schermo televisivo) nonché dai toni decisamente patriottici: un patriottismo non annoverabile nel triste e fascisteggiante trittico “Dio, Patria e Famiglia”, bensì intriso di un fervore unitario e repubblicano.

In tempi come quelli attuali, segnati da impellenti voglie di monarchia e di un solo uomo forte al comando, diventa impellente rammentare agli italiani cosa sia stato davvero il Risorgimento. La Storia oggi sembra essere affidata alla marca di un caffè che domina nella veste di sponsor su tutte le reti nazionali, con lo scopo non secondario di risvegliare sentimenti filo-borbonici, e alle riscritture dell’epopea ottocentesca italica in un’ottica di rivalutazione degli staterelli preunitari (sia nel Sud d’Italia, come insegna il movimento neoborbonico, come al Nord e al Nord-Est dove si rimpiangono gli Asburgo).

Occorre evidenziare i moti d’animo e le attese che, dall’epoca napoleonica in poi, hanno costituito l’essenza dello spirito unitario. I moti carbonari, le ribellioni alle monarchie, il perseguire l’instaurazione di repubbliche costituzionali, le cospirazioni soffocate nel sangue, erano le tante manifestazioni di ideali e slanci eroici. I protagonisti di quell’età generosa lottavano per cacciare i re e le regine, nel nome dell’equità nonché della giustizia sociale (il Socialismo era agli arbori di una sua precisa definizione).

Oggi dominano le fake news in un mare di ignoranza collettiva, e con quelle si rimaneggia letteralmente la Storia. Il revisionismo archivia il Risorgimento, con tutto il suo fardello di sogni ed errori, riassumendolo in una voglia “espansionistica e predatoria dei piemontesi”, indicando pure nel forte di Fenestrelle l’esistenza di un lager (menzogna orribile) funzionale allo sterminio di soldati delle Due Sicilie.

Controstoria delirante, folle, strumentale a un chiaro disegno politico secessionista, un pericoloso revisionismo che non risparmia insulti neppure a Garibaldi e alla sua compagna Anita.

Una feroce campagna diffamatoria è stata condotta contro la memoria de “L’eroe dei due mondi”. Ingiurie violente, quanto ingiuste, ai danni di un uomo che corse al galoppo (fu l’unico) per sostenere militarmente la Comune di Parigi (1871), dopo aver già combattuto in America Latina per i medesimi ideali libertari. Garibaldi fu pure il primo, e unico, deputato dell’Italia unita a presentare un disegno di legge avente per oggetto l’eliminazione dei privilegi in capo ai parlamentari (un pre-grillino ma socialista). Statista denigrato, o ancor peggio dimenticato, da quegli italiani mai davvero diventati tali, neppure dopo oltre un secolo e mezzo dall’agognata Unità.

Recarsi in teatro per assistere alla “Tosca” non può che fare bene al proprio accrescimento culturale, all’allargamento degli orizzonti personali: un deterrente contro la crassa ignoranza di coloro che auspicano l’arrivo di un nuovo duce al potere, magari in alternativa a un’Italia spaccata in tre regni. Individui che invocano il “Nuovo” riportando le lancette della Storia al 1750.  

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