Lo tristo mietitore d'Europa

La recentissima vittoria dei Tory in Inghilterra è un fatto inquietante, oltre che intriso di paradossi sociali e politici, a causa del primato che rappresenta: il risultato dei Conservatori è stato infatti un grande successo, da alcuni definito “Storico”, comparabile solamente a quello ottenuto in passato da Margaret Thatcher. 

La “Lady di Ferro”, negli anni ’80, costruì la propria carriera politica tramite un programma incentrato soprattutto sulla privatizzazione dei servizi pubblici e delle attività economiche. In poco tempo la Thatcher consegnò agli imprenditori la sanità e i trasporti collettivi (tranne la Metropolitana londinese che rimase di proprietà pubblica grazie alla tenacia del sindaco Livingston – noto come Ken il Rosso). Al contempo il suo governo eliminò i sussidi pubblici alle attività minerarie estrattive: scelta che pagarono migliaia di lavoratori e in primis i minatori del carbone, licenziati in massa.

Malgrado l’immensa opera di macelleria sociale attuata dalla premier conservatrice, nota anche per le dichiarate simpatie rivolte al dittatore cileno Pinochet, il popolo continuò a sostenerla. Il risveglio improvviso dal sogno dorato fu terribile, poiché gli inglesi scoprirono di aver infilato la testa nel cappio ed essersi giustiziati senza neppure darsi un giudizio di appello.

Oggi la Storia sembra ripetersi. Le urne consegnano nuovamente la nazione retta dalla monarchia più potente d’Europa, ma anche la più discussa, nelle mani di un personaggio all’altezza dei tempi confusi e pieni di fobie che l’Occidente vive. Boris Johnson, l’uomo della Brexit ed ex sindaco di Londra, ha stravinto la competizione elettorale puntando su poche promesse: abbassare le tasse alle imprese, dedicare maggiori risorse al welfare, e fissare una data certa all’archiviazione definitiva (tombale) della lunga nonché faticosa procedura che accompagna l’addio all’Unione.

All’inquietudine originata dal voto inglese si sommano i tanti suoi paradossi. Il primo risiede proprio nella linea programmatica del trionfante Boris, il quale si riconosce nelle idee iper neoliberiste della premier di ferro, ma che al contempo se ne distanzia sul delicato tema sociale. Una discrasia curiosa, forse dettata dalla necessità di incamerare preferenze in un contesto dove le “privatizzazioni” hanno impoverito gli elettori come non mai.

Un altro paradosso è rinvenibile nei commenti ospitati in molti quotidiani britannici, impegnati all’unisono a indicare in Corbyn (il leader laburista) la causa della sconfitta della Sinistra. Gli opinionisti politici lo descrivono di continuo come un personaggio troppo legato al passato, per i suoi ideali socialisti, nonché eccessivamente radicale nelle proposte fatte agli inglesi. Nessun redattore purtroppo ha voluto ricordare come in realtà sia Johnson il candidato maggiormente arretrato tra i due, poiché “Conservatore” per definizione e fedele a valori liberistici già in voga nelle monarchie del XVII secolo (mentre il Socialismo è sorto in tempi più recenti).

Tra tutte le stranezze di questa tornata elettorale quella maggiormente significativa, di quanto accaduto a livello politico, è l’atteggiamento tenuto in questa occasione dall’ex premier Tony Blair (l’idolo indiscusso di Renzi): un’ambiguità assoluta verso il proprio partito; un insieme di feroci critiche a Jhonson (paragonato a Salvini nella pericolosità), ma pure di violenti rimproveri a Corbyn, tali da far pensare ad alcuni osservatori che Blair abbia di fatto scelto di sostenere i Tory.

L’accusa diretta al Labour è quella di aver scelto la strada del marxismo massimalista. Lo stesso Matteo Renzi ha rimproverato Corbyn per un eccesso di radicalità nei temi proposti in campagna elettorale, ma i dati del voto dicono cose diverse. Nel 2019 il Partito Laburista ha incamerato oltre 10.200.000 voti, mentre Blair al terzo mandato ne prese 9.500.000, ossia settecentomila in meno. I progressisti non hanno retto alla propria proposta di rifare il referendum anti europeo, non alle speranze di una società più giuste ed equa.

Le secessioni una volta innescate ne generano facilmente altre. La Gran Bretagna sceglie di abbandonare definitivamente l’Europa, affidandosi ai Conservatori, e contemporaneamente la Scozia risponde con il rilancio della sua separazione dalla Gran Bretagna stessa. Gli abitanti delle “Alte Terre” hanno infatti intenzione di non lasciare la casa europea, anche a costo di dividersi dal resto dell’isola: altro curioso frutto dei risultati delle urne.

La nazione che ha spesso contaminato il Vecchio Continente con la sua frizzante Cultura oggi cede innanzi al terrore verso gli immigrati (compresi purtroppo i tanti giovani italiani stabilitisi a Londra). L’Inghilterra ha scelto Jhonson, affidandogli un ruolo da maggiordomo, poiché a lui toccherà fare le valigie per abbandonare Bruxelles e dedicarsi solo al Commonwealth (o meglio quel che ne rimane). Uno splendido isolamento che presto regalerà l’ennesimo brusco risveglio ai cittadini d’oltremanica.

La caduta dei valori comunisti in Occidente è applaudita da molti commentatori e intellettuali, ma pochi di questi hanno voluto prestare attenzione al fenomeno scaturito da tale scomparsa: il nazionalismo.

Ovunque nascono muri, partiti sovranisti, gruppi nazionalsocialisti, terribili visioni di supremazia identitaria. Erdogan (Turchia), Jhonson (UK), Trump (USA), Orban (Ungheria), Modi (India – supremazia Indù sulla comunità Musulmana), Shinzo Abe (Giappone) sono alcuni nomi di premier appartenenti a una sorta di rinata “Internazionale Nazionalista” (a cui si possono annoverare Le Pen e Salvini tra i candidati futuri premier).

I protagonisti di un’entropia micidiale in cui è troppo facile soffocare.

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