STATO SOCIALE

Senza lavoro non c'è cittadinanza

Partire dai giovani e dalle imprese, evitando approcci assistenziali e dirigisti. Perché solo con la formazione l'occupazione diventa un fattore di crescita economica e civile. L'esperienza della Piazza dei Mestieri raccontata dal fondatore Odifreddi

Il presupposto è chiaro: non c’è stato nessun impatto sul mercato del lavoro degli oltre 700mila beneficiari del reddito di cittadinanza considerati occupabili e, a fronte di questa amara presa d’atto del Mef c’è un posto dove la percentuale più bassa di chi trova lavoro dopo averne imparato uno è del 60% e la media supera l’80. La domanda è tanto semplice quanto scontata: perché quello che riesce a Torino, nella Piazza dei Mestieri – coraggioso esperimento incominciato quasi sedici anni fa e ormai consolidato esempio di formazione professionale che funziona – non può essere, banalmente, copiato e applicato anziché affidare vane speranze all’improbabile ruolo degli altrettanti improbabili navigator?

La risposta Dario Odifreddi, inventore di quel miracolo a Torino che nel 2004 era partito con 300 ragazzi e adesso, dopo l’apertura di una sede anche Catania che conta non meno di 5mila giovani ogni anno, la dà con un sorriso, un po’ amaro però. “Bella domanda. Il fatto è che al dil à di molte affermazioni teoriche, questo Paese non ha ancora imparato cosa vuol dire sussidiarietà, che vuole dire: se c’è qualcuno che sta facendo una cosa in modo efficiente ed è meno costoso rispetto a quanto lo sarebbe se fatta dallo Stato, magari vale la pena valorizzarlo”.

E magari di applicare quel modello. Invece si è preferito il reddito di cittadinanza, confermato anche da questa nuova maggioranza di governo, pur di fronte a quei dati che ne evidenziano il fallimento sul fronte dell’occupazione. Odifreddi, lei cosa avrebbe fatto? Lo avrebbe dato il reddito di cittadinanza spiegando che sarebbe stato lo strumento per trovare o ritrovare un lavoro?
“Su questa misura mi pare evidente che ci siano tante difficolta di funzionamento, legate principalmente a due aspetti. Diciamo che era veramente difficile pensare che i navigator potessero fare quel che va fatto da professionalità molto specifiche. Per far incontrare domanda e offerta, specie in questo periodo non facile, servono figure che non si possono creare con qualche corso. Secondo aspetto della questione: bisogna stare attenti a distinguere il sostegno al reddito da quella che è politica attiva per aiutare le persone a uscire dalla marginalità dovuta alla mancanza di un lavoro. Detto questo, un intervento temporaneo di sostegno al reddito può essere utile, però bisogna investire seriamente nelle politiche attive, avere la coscienza del fatto che investire sull’educazione e sulla formazione è necessario per evitare che questo Paese affondi”.

Voi con la Piazza del Mestieri lo avete pensato più di quindici anni fa. La crisi era ancora da arrivare, avevate capito in anticipo che bisognava fare qualcosa di innovativo?
“Era già chiaro che lo scollamento sempre più profondo tra scuola e mondo del lavoro era una barriera all’entrata dei giovani in quel mondo lì, l’idea sbagliata secondo la quale prima si studia per vent’anni e poi si guarda al mondo del lavoro. La Piazza dei Mestieri è il tentativo di creare le condizioni per superare quello scollamento. Negli anni è diventata per questi ragazzi una casa, un posto amico in cui non c’è frammentazione tra l’apprendimento, la cultura, il tempo libero e il lavoro”.

Si studia e si lavora, si impara e si produce. È questa la formula magica?
“Non so se sia una formula magica, so che è quello che si fa: abbiamo vere e proprie attività produttive in cui i ragazzi possono fare un’esperienza reale e non simulata. C’è il ristorante, il pub, il laboratorio del cioccolato, la tipografia, il salone di acconciatura, il laboratorio del cioccolato. Un’esperienza unica nel nostro Paese. E sono attività che formano, ma danno lavoro, creano reddito”.

C’è chi resta e chi va a lavorare fuori, dopo aver imparato un mestiere. Sembra facile detto così, ma quando si guarda fuori il mondo appare diverso. Insomma se c’è una alta percentuale di occupati tra i vostri ragazzi e i navigator navigano ancora a vista nella nebbia senza dare quel che dovrebbero, questo dice anche un’altra cosa: che si sono imprenditori e artigiani che assumono. Giusto?
“Certo. Intanto una premessa: la prima condizione per uscire dalla marginalità è quella di avere un lavoro. E, secondo passaggio, per avere un lavoro serve una preparazione adeguata, quindi bisogna investire molto molto di più sulla formazione e dare risposte alle esigenze delle aziende, piccole o grandi che siano e che spesso cercano le professionalità necessarie senza trovarle”.

Il mondo dell’impresa, anche quelle piccole, l’artigianato è recettivo nei confronti di iniziative e proposte come la vostra? Dalle assunzioni si direbbe di sì, ma è lei che deve dirlo.
“Assolutamente sì, ma è un mondo che va coinvolto veramente. L’inserimento dei ragazzi in piccole strutture artigianali non è una cosa banale: devi accompagnare i datori di lavoro anche nel percorso della strumentazione giuridica, i contratti, poi li devi coinvolgere sulla progettazione degli interventi. Noi stiamo lavorando a un progetto importante che presenteremo a breve dove abbiamo coinvolto i datori di lavoro che vengono a fare attività di docenza. Non è che puoi andare dall’artigiano o dall’imprenditore e dirgli: abbiamo dei ragazzi bravi li assumi? Questo non funziona. Serve un percorso più complesso, di partecipazione e condivisione”.

Sono stati assunti i navigator, ma intanto sono state ridotte le ore di alternanza scuola lavoro. Scelta giusta?
“Per niente. Sbagliatissimo aver ridotto le ore di alternanza, uno dei passagi fondamentali. Si poteva migliorare, correggere, ma non ridurre.Imparare a stare nel mondo del lavoro durante gli studi è un concetto che ormai è stato compreso in tutto il mondo. Qui, invece, si pensa che uno studia fino a vent’anni e più poi arriva nel mondo del lavoro: salvo scoprire che non capisce un tubo”.

Le Regioni hanno competenza e ruolo nelle politiche attive. Come è andata con le precedenti amministrazioni e cosa si aspetta da questa?
“Il giudizio per il passato è positivo, indipendentemente dai colori politici. Si sono fatte cose buone con Claudia Porchietto quando era assessore del centrodestra e con Gianna Pentenero col centrosinistra. Adesso con la nuova programmazione comunitaria bisogna pensare a potenziare quel che funziona, ma anche innovare e, io penso, incominciare a premiare il merito”.

Di chi fa formazione?
“Certo. Sono dell’idea che una parte delle risorse vadano investite in base ai risultati che si conseguono. Se faccio un’attività formativa una parte significativa del riconoscimento economico deve esser legata ai risultati che poi non sono altro che contratti di lavoro. Non si può pagare chi fa formazione solo in base ai dipendenti, altrimenti si diventa pure noi attori negativi dello sviluppo economico. Dobbiamo stare alla sfida, invece purtroppo mi pare che si continui a stare al lamento”.

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