Un festival di idiozia collettiva

Alcuni fenomeni televisivi sono spesso sopravvalutati da opinionisti e media. I significati attribuiti agli indici di ascolto “record” sono utili allo sviluppo del mercato pubblicitario, non certo a chi studia sociologia, ma indiscutibilmente il successo di massa di alcuni spettacoli è lo specchio in cui si riflette l’immagine di un’intera comunità.

Il Festival di Sanremo, giunto quest’anno al suo settantesimo compleanno, si conferma quale infallibile cartina tornasole dei pensieri più reconditi della nostra Italia, nonché dei suoi costumi sociali e culturali.

Gli avvicendamenti di premier e maggioranze parlamentari influiscono pesantemente su ogni edizione della gara canora ligure. Pippo Baudo, nella veste di anchorman sanremese, è stato per lungo tempo la rappresentazione dell’italianità democristiana, o al limite pentapartitica. Nelle serate da lui condotte, l’implacabile sequela di canzoni popolari subiva, con puntualità svizzera, interruzioni dovute a spettacolari colpi di scena. Nel nome dell’audience venivano assestati al pubblico dell’Ariston (e a quello televisivo) una serie di schiaffi emotivi (operai tentati dal suicidio in diretta, disperati incatenati alle balaustre della galleria, e tanto altro ancora) prontamente trasformati in carezze rilassanti grazie alla mediazione tempestiva dello showman.

La raffigurazione di uno Stato paterno, capace di portare serenità anche al più scoraggiato degli uomini, è al centro di molte edizioni del Festival. Negli anni si è tentato qualche timido smarcamento dell’evento musicale dai soliti temi nazional-popolari, affidandone la guida a personaggi quali Fabio Fazio e Gianni Morandi (evito qualsiasi cenno alla conduzione nefasta del quartetto dei “figli d’arte” Celentano, Tognazzi, Dominguin e Quinn), ma il vento del cambiamento ha iniziato a soffiare davvero soltanto con l’arrivo a Sanremo di Claudio Baglioni.

Baglioni ha tratteggiato nel biennio 2018-19 un festival fresco e aperto alla Cultura mondiale, ossia di oltre confine e soprattutto inclusivo. Il mattatore ha lanciato dal palco ligure messaggi regolarmente intrisi di contenuti. Gli opinionisti, all’unisono, hanno giudicato le due edizioni del festival come le più innovative e ricche di buona musica.

L’anno scorso la palma della vittoria è stata assegnata a Mahmood, artista italiano di padre egiziano. La non totale italianità del vincitore (o meglio, il suo nome), insieme ad alcune prese di posizione sul tema immigrazione da parte dei conduttori, ha scatenato l’ira funesta del prode Ministro Salvini del governo Giallo-Verde. Il potere politico dell’epoca, poi travolto dagli eventi, ha quindi ritenuto inevitabile un cambiamento radicale della kermesse stessa. Silurato Baglioni e il suo staff, la scelta è andata su Amadeus, ritenuto meno compromesso con le visioni di Sinistra del mondo.

Sanremo 2020 ha garantito un ritorno alla normalità, benedetto dal superamento di ogni record d’ascolto precedente. Il Festival è stato battezzato dai giornalisti quale evento “dell’amicizia”, e le scelte dei nuovi dirigenti Rai hanno ricevuto l’avvallo da tutte le testate nazionali. L’unica trasgressione ammessa in diretta Tv è stata quella di alcune performance giocate sull’ambiguità sessuale. Neppure a Benigni è stato concesso spazio alla provocazione: il sonno delle coscienze quest’anno non ha subito bruschi risvegli.

In tale contesto i ritmi molto lenti e narcisisti di Fiorello hanno aiutato a diffondere nel pubblico la necessaria dose di apatia, mentre il sorriso naturale di Amadeus ha consentito di chiudere la porta a qualsiasi critica da parte degli esperti di comunicazione e democrazia televisiva.

Le canzoni in gara sono tornate a calcare la cara vecchia rima “Cuore-Amore”, seppur con testi e musiche di autori individuati tra le giovani promesse delle nuove generazioni, cresciuti in rete oppure negli allevamenti tritacarne dei talent show.

Sul palco dell’Ariston la vera parte del leone l’hanno fatta però gli “animatori” dei locali di tendenza della nuova “Milano da bere” (Lamborghini e Myss Keta ad esempio), profeti di una ribellione edulcorata (borghesissima) a esclusivo uso consumistico. Personaggi distanti anni luce dalla professionalità e dalla freschezza scenica di Virginia Raffaele, una delle protagoniste delle scorse edizioni.

Baci saffici e balletti sadomaso, insieme ai pesanti trucchi e alle scenografie di Achille Lauro, hanno avuto il compito di creare una vera metamorfosi: trasformare un Festival tutto sommato banale in qualcosa di estremamente “figo”, dove l’immagine del Paese (quella da dare in pasto agli italiani) si mescola con qualche eccellenza canora e maldestri tentativi di sferzare l’opinione pubblica tramite shock studiati a tavolino.  

“Fa figo e non impegna”, potrebbe essere lo slogan di Sanremo 2020. I rapper invitati a grappolo sul palco narrano in realtà di un crollo culturale devastante: il nulla mascherato da nulla. La finta redenzione di cantanti che nei loro brani normalmente esaltano la supremazia della forza machista (sul modello di Junior Cally) è la conferma di una televisione di Stato caduta volutamente nel caos dello share. La Rai da anni ha rinunciato a divulgare Cultura per concentrarsi invece nella ricerca di clown, ballerine e litigi alla “Uomini e Donne” da mandare in onda.

È tornata la televisione di regime: trasgressione quanto basta, disinformazione e azzeramento della Cultura in gran quantità. Uno spettacolo che tempo addietro un noto sociologo definì “fabbrica di idiozia collettiva”.

print_icon