L’uomo che sturava i lavandini

Uno strano individuo vestito di giallo, e con uno stura lavandini fissato sulla testa, si mette a favore delle telecamere e parla al microfono. Lo stravagante personaggio individua un deputato della Repubblica e decide di corrergli incontro, facendo oscillare pericolosamente la ventosa (con la sua lunga impugnatura in legno) appiccicata al cappuccio giallo che gli ricopre la nuca. Il politico lo vede e inizialmente accenna a una fuga, poi si arrende e rallenta il passo. Invece di conquistare l’ingresso di Palazzo Montecitorio decide di ascoltare quella sorta di giornalista in costume, e di rispondere alle sue domande decisamente psichedeliche. Il pubblico a casa è conscio di assistere a un’intervista  imbarazzante, come del resto sono imbarazzanti i protagonisti dello sketch comico: da una parte un cronista sturalavandini, a metà strada tra il giullare e il venditore di articoli per il bagno, dall’altra un rappresentante delle Istituzioni che sorride, seppur tentato dalla fuga, mentre a fatica risponde ai deliranti quesiti sottoposti alla sua attenzione.

Queste insensate conversazioni sono la rappresentazione più fedele del decadimento in cui giace il sistema  democratico italiano. Una classe politica canzonata pubblicamente e obbligata a stare al gioco dell’uomo  “stura scarichi” di turno: deputati derisi ma costretti al confronto per ragioni di comunicazione di massa,  oppure semplicemente perché incapaci di tener testa a una situazione che li rende ostaggio di un patetico  eroe mascherato.

La sintesi di un grave paradosso composto da un’informazione affidata alla burla, non a una sana satira, e da parlamentari con tanto di coda di paglia e quindi succubi di qualsiasi troupe televisiva: qualunquismo e  populismo affondano le loro radici nella ridicolizzazione continua delle Istituzioni democratiche.  Incompetenza e scarsissima attenzione nei confronti della collettività alimentano ulteriormente  l’agghiacciante raffigurazione di rappresentanti del popolo inutili, e spesso indegni del ruolo che rivestono. Il calderone del “sono tutti uguali” (cosa assolutamente non vera) facilita la cottura a fuoco lento di ogni eletto, senza permettere la distinzione tra chi crede nel significato di quel mandato elettorale e chi, invece,  cura solo gli interessi propri e quelli dei lobbisti che lo hanno finanziato.

Il modo per contrastare tale malcostume è scontato. L’unica maniera per porre un freno a questo esercito di loschi figuri, vittime e allo stesso tempo carnefici di se stessi, è quella di togliere loro la sedia da sotto le terga, riducendone il numero. Il cavallo di battaglia dei pentastellati è infatti resistente a qualsiasi dubbio:  diminuire il numero di parlamentari diventa una missione doverosa per salvare il salvabile, specialmente in assenza di altre soluzioni possibili.

In realtà la riforma costituzionale “liquidatoria”, che va ad incidere sul numero dei posti in Parlamento, è la continuazione naturale di molte scelte varate dai precedenti governi, tra cui quello Renzi (l’anti-Grillo per eccellenza). Nel tempo, infatti, è stato tagliato il numero di consiglieri e di assessori delle giunte elette nei piccoli municipi. In seguito, l’investitura dei componenti delle comunità montante e delle città metropolitane è stata affidata ai comuni, togliendola ai cittadini, mentre in talune regioni è stato ridimensionato il numero dei consiglieri evitando però accuratamente di mettere mano ai listini bloccati (liste non assoggettabili alla volontà degli elettori).

Lo stesso importante contenimento numerico di senatori e deputati è parte della volontà di accentrare il potere nelle braccia degli organi esecutivi: giunte e governi risicati nel numero dei componenti e sempre meno controllabili dalle minoranze.

Il copione usato per influenzare l’opinione pubblica è all’incirca lo stesso adottato nel lungo percorso delle privatizzazioni dei beni comuni (beni di noi tutti). Il primo atto è sempre incentrato sullo svilimento del servizio pubblico (nel caso della politica il compito è stato facilitato dai politici medesimi), in seguito si focalizza l’attenzione degli elettori sul contenimento della spesa e allo stesso tempo sulla professionalità dei privati. La stangata finale viene assestata grazie a provvidenziali colpi di scena che “spingono” ulteriormente, e opportunamente, la popolazione verso il consenso indolore al depauperamento del patrimonio collettivo nonché delle strutture democratiche (il cosiddetto suicidio popolare).

Riguardo le Istituzioni repubblicane l’unica differenza, rispetto al collaudato procedimento di esternalizzazione dei servizi, risiede nella maggior difficoltà nel privatizzare la Democrazia costituzionale: fenomeno denominato “Dittatura”.

Il prossimo referendum del 29 marzo, al di là del risultato sancito dalle urne, è il de profundis del sistema istituzionale. Privilegi in capo alla cosiddetta “casta”, costi del “caro campagna elettorale” che consentono solamente ai benestanti di poter accedere alla candidatura, lobbisti pronti a elargire cospicui finanziamenti a chi ne sposa la causa (legittima o meno essa sia), malafede di tanti eletti in Parlamento e loro disinteresse nei confronti dei problemi che quotidianamente affliggono i cittadini più deboli, sono perversioni del sistema non contenibili tramite la sola attività legislativa.

La cura dei mali del nostro Paese è in mano ai cittadini, poiché poco possono fare le riforme incentrate sulla consegna del potere parlamentare a una super-casta (la casta della casta) di eletti, sovente tali grazie al loro patrimonio personale (di qualsiasi origine esso sia). Controllare, verificare, punire con il voto i malandrini, esigere Democrazia diretta e partecipazione è la via indicata dalla Carta costituzionale nei titoli in cui elenca i diritti assoluti.

Togliere rappresentanza (questo significa ridurre il numero dei Parlamentari) così come confidare nel super eroe con uno stura lavandini in testa per far valere ragioni e diritti, significa arrendersi a coloro che sin dal 26 aprile 1945 sognano di riprendere in mano le redini d’Italia.

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