Sanità in trincea

“Oggi ho tenuto per tanto tempo la mascherina con il filtro. Mi facevano male le orecchie e non riuscivo a capire cosa mi desse così fastidio, poi mi sono resa conto che erano i laccetti che premevano intorno ad esse. Inoltre, indossando la mascherina, gli occhiali si appannano e ogniqualvolta li sposto devo cambiare i guanti: sono gesti spontanei, spesso mi dimentico che non devo farlo”. Continua la testimonianza della dipendente di un grande ente ospedaliero torinese: “Quando la mole di lavoro me lo permette cerco di uscire un attimo fuori per togliere la mascherina, perché portarla per tante ore di seguito comporta una strana sensazione di difficoltà nel respiro, ma i camici indossati uno sopra l’altro fanno sentire molto caldo dando la sensazione di avere la febbre, e scatta l’ansia”. Termina così il suo sfogo: “Ti saluti a fine turno, sovente ben oltre il normale orario di lavoro, sperando di stare bene e poter tornare in reparto l’indomani e rivedere tutti i colleghi”.

In questi durissimi giorni, dominati dal Coronavirus, sono state dedicate molte parole intrise di retorica a coloro che operano in prima linea. Ho voluto quindi riportare lo sfogo, privo di manipolazione, di un combattente in trincea: una lavoratrice impiegata nei reparti non toccati direttamente dall’emergenza virale (non in rianimazione o in pronto soccorso ma nelle cosiddette retrovie).

Due miei amici medici, marito e moglie, operano in due diversi ospedali della provincia torinese. La situazione attuale li ha costretti ad affidare i figli ai nonni, residenti fuori città: da settimane non hanno più contatti con loro, se non tramite preziose videochiamate.

Non devo aggrapparmi a frasi fatte o slogan per poter elogiare le equipe in azione in tutti i reparti ospedalieri. Nel maggio scorso ho avuto l’occasione, inattesa, di mettere la mia vita letteralmente nelle mani degli operatori del Pronto soccorso, poi della Rianimazione e infine del reparto di Pneumologia del Mauriziano.

Nei giorni di degenza, dopo aver ripreso a “vivere”, ho osservato con ammirazione gli operatori socio-sanitari, gli infermieri e i medici nella loro quotidiana attività di cura dei pazienti. Mi sono emozionato, a volte commosso, nel toccare con mano la passione e la dedizione assoluta di questi instancabili lavoratori.

Il mio non è un commento di parte, pur se espresso da ex paziente a cui è stata salvata la vita, ma la testimonianza sincera di un osservatore (suo malgrado) “privilegiato”. Dal mio letto di degenza ho apprezzato infinitamente le mille attenzioni di cui ero oggetto, così come ho tratto sollievo nel constatare quotidianamente l’immensa dose di umanità dispensata a tutti i ricoverati intorno a me.

In rianimazione ho assistito inevitabilmente anche a decessi ed emergenze varie: eventi a cui il gruppo di lavoro ha risposto con professionalità e soprattutto con la consapevolezza di aver a che fare con esseri viventi, e non con gli anonimi numeri posti in prossimità dei letti.

Dolore, fatica, commozione hanno spesso segnato i volti delle persone che mi curavano. Qualsiasi cosa accadesse tutti erano comunque sempre pronti a regalare un sorriso, a tranquillizzare gli animi con due parole o una frase ironica. Da fine febbraio mi ritrovo spesso a pensarli con smisurato timore per la loro salute, e vorrei sostenerli in queste tremende giornate.

Giornate vissute come “più difficili di altre”, poiché in ospedale non è mai facile portare avanti la tutela del diritto costituzionale, nonché universale, della Salute. Non lo è specialmente in un perenne clima di taglio dei posti letto, di feroce riduzione delle risorse finanziarie alle Asl, di sostegno al Privato a scapito del Pubblico. E’ opera difficile anche grazie alla carenza cronica del materiale necessario allo svolgimento delle attività sanitarie, e agli stipendi inadeguati a fronte dell’impegno continuo degli operatori sanitari.

Sino a metà febbraio scorso la moda di gran parte dei premier politici era il perentorio “Ridurre, chiudere”. Gli elettori sono stati abituati per decenni a parole che hanno le loro radici nel “rigore”: sacrificio riservato naturalmente solo ai ceti più deboli, mentre per quelli medio-alti la lussuosa ubriacatura è continuata permettendo loro di superare indenni tutte le crisi economiche.

Ne è derivato in realtà il saccheggio delle strutture sanitarie. Una depredazione attuata con fini diabolici (per nulla trasparenti) e a danno di malati e persone fragili, come dimostra lo sconcertante dato attuale: il sistema cade in crisi nel momento in cui si ammala lo 0,039% della popolazione, di cui il 10% in modo grave (dato riferito a Torino e Provincia il 18 marzo 2020).

Non è più tempo di retorica, neppure di autocommiserazione, è invece ora di riprendere in mano lo Stato per tutelarlo dagli arraffoni di ogni genere e grado (gli scandali legati al sistema Sanità dominano la cronaca costantemente). Dopo centinaia di servizi giornalistici che ripetono sempre i medesimi concetti e le solite immagini di piazza vuote, utili solo a far crescere l’ansia collettiva, deve iniziare adesso la fase della concretezza. Questa emergenza virale ha consegnato un’occasione d’oro per aiutare tutti ad aprire gli occhi sulla macelleria sociale voluta, soprattutto, da chi ha sempre chiesto voti per il bene della nazione.

Il “Dopo” è già iniziato, vietato distrarsi: questa dannata emergenza dovrà essere marcata a fuoco nella memoria collettiva. Solamente così sarà possibile evitare di cedere alle sirene dei sovranisti, di chi è sempre più fedele a quegli stessi nazionalisti che hanno chiuso le porte in faccia al nostro popolo, ribadendo la difesa dei beni comuni (del nostro patrimonio) quale azione prioritaria di chi si candida a governare.

Un pensiero a chi sta lottando per noi, malgrado il tradimento reiterato negli anni e che non siamo riusciti a impedire con il voto e neppure con la costruzione di una coscienza collettiva.

print_icon