Inefficaci appassionati di risiko

L’Italia è vicina agli amici libanesi in questo momento tragico. I nostri pensieri vanno alle famiglie delle vittime, a cui esprimiamo il nostro cordoglio, e alle persone ferite, a cui auguriamo una pronta guarigione. Il messaggio è del nostro ministro degli Esteri, perfetto come condoglianze formali per famiglie amiche ma non per un popolo martoriato da guerre civili e conflitti religiosi. In un paese in cui convivono, non pacificamente, 18 confessioni religiose 2 milioni e 500 mila rifugiati su una popolazione di 6 milioni e 800 mila, dove il potere politico è suddiviso tra cristiani maroniti, sciiti di Hezbollah (partito di Dio) e sunniti, in cui la componente salafita-jihadista ha assunto sempre più un ruolo centrale, la domanda è: ma chi sono gli amici libanesi? Capziosa se posta alla politica italiana appagata dal comando del contingente Unifil, forza di interposizione delle Nazioni Unite, missione del tutto secondaria se rapportata allo sfascio e al fallimento di un paese un tempo considerato la Svizzera mediorientale.

Tralasciando specifiche responsabilità ed eventuali esecutori dello scoppio di 2700 tonnellate di nitrato di ammonio, in ogni caso, l’implicazione è della sconcertante condizione politica del Paese. Non lo scopriamo oggi il Libano come area di scontro decennale tra le potenze regionali circostanti, tra decine di confessioni religiose e, se non bastasse, interconfessionali. Quindici anni di guerra civile 1975-1990 provocarono 150 mila morti e la diaspora di circa 10 milioni di libanesi e anche dopo gli accordi di Ta'if, che posero fine al conflitto, si contano in questi ultimi trent'anni ancora migliaia di caduti. Una situazione complicata e del tutto compromessa dalla frantumazione delle posizioni politiche religiose e quindi militari. Ad esempio, gli Alawiti, ramo sciita dell’Islam, si scontrano con i sunniti e convivono con gli sciiti di Hezbollah a Beirut, ma divergono da quel loro socialismo islamico perseguito in alleanza con Iran e Siria, quest’ultima ferocemente contrapposta agli stessi Alawiti. Insomma un Paese dal futuro oscuro stremato anche da una pesante crisi economica, in balia degli interessi e delle prossime strategie delle potenze regionali. Certo ci sarà una mobilitazione per la ricostruzione edilizia, anche dopo la guerra civile Beirut visse una fase di rinascita urbanistica; la Francia, individuata l’opportunità, si è già proposta come capo progetto della conferenza internazionale dei donatori, occupando lestamente il ruolo dell'Ursula von der Leyen che ha inviato tecnici e stanziato il pesante importo di 33 milioni di euro. Non abbiamo dubbi, Beirut sarà ricostruita ma il Libano continuerà ad essere un’intricata instabile area di scontro.

Per un effettivo mutamento si intravedono strategie di ricomposizione e coesistenza? Perverranno analisi e indicazioni da Onu, Lega Araba, Nato e Ue? Considerati i passati decenni non assisteremo a significativi impegni, per le prime tre la decrescita della propria missione comporterà sempre più condizioni di inefficacia e, quindi, una sorta di neutralità. La Ue, poi, da sempre estranea a visioni e ragionamenti geopolitici, vedesi Libia, partorirà qualche iniziativa di buon cuore, augurandosi che imprese europee possano beneficiare degli aiuti per la ricostruzione.

Ci sono infine quelli convinti di muoversi su ampi planetari scacchieri, gli appassionati di risiko, certi di poter condizionare politiche, alleanze e strategie grazie al dispiegamento di forze armate, tralasciando la considerazione che trattasi solo di operazioni di interposizione, perché mai la pubblica opinione e un sentimento nazionale consentirebbero la posa di uno scarpone militare su un territorio di guerra.

Certo è che per una concreta e duratura coesistenza il Paese dei Cedri necessita di ben altre lungimiranti e corpose energie.

*Vincenzo Olita, Società Libera

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