Ripensare il presente per costruire il futuro

Torino sta male, stava già male prima del Covid e starà peggio dopo. Tutti i dati e gli indicatori rilevano che il peggioramento che era già in corso si sta accentuando, ed è una situazione che si allontana in senso negativo da quella delle altre aree del Nord. Senza entrare nel dettaglio di tutte le ragioni storiche e strutturali, peraltro note, quello che invece si vuole evidenziare è la relazione fra questi andamenti ed una cultura egemonica nella città che ha dato vita ad una strategia e ad una narrazione di cosa essa deve essere e diventare che si è dimostrata tanto irrealistica quanto “ossessivamente” reiterata. L’aver puntato tutto su un futuro indissolubilmente legato a doppio filo con l’high tech, la società della conoscenza, ecc. quantunque abbia ragioni e motivazioni corrette e individui una prospettiva ineludibile e strategica, ha finito per concentrare su di essa tutte le energie, i ragionamenti, le proposte, la formazione stessa della classe dirigente, rimuovendo, marginalizzando, quasi non prendendo in considerazione altri scenari e opportunità, e creando una sorta di pericoloso “effetto fata Morgana” che ha generato l’illusione di essere lì ad un passo da diventare una nuova Silicon Valley.

Nel fare questo si sono sottovalutate le effettive condizioni che possono portare un territorio ad assumere una fisionomia simile. Si è puntato ad una crescita dal basso per linee interne, dimenticando che l’impetuosa crescita delle aree a cui ci si vorrebbe ispirare è frutto di una serie di condizioni che a Torino sono esistenti solo in parte e lo sono comunque, e forse in alcuni casi anche di più, anche in altre aree. Tipicamente fra tali condizioni il ruolo trainante delle grandi aziende come driver dello sviluppo delle startup e degli insediamenti di significative nuove realtà produttive, elementi entrambi mancati nel nostro territorio.

In secondo piano, quasi rimosso, è finito il tema del futuro dell’auto e della mobilità, sempre più condizionati se non determinati dall’elettrico. Si è mancata l’occasione quantomeno di concorrere all’insediamento in Europa della Giga Factory di Tesla, e a quello di Hyperloop Transportation Technologies in campo di nuove tecnologie di trasporto ferroviario (mentre il dibattito locale ha concentrato tutte le energie sul tema Tav), solo per citarne alcune. Assordante è poi l’assenza di prospettive sul tema della green economy, in merito a quali investimenti attrarre o realizzare ad esempio nella produzione di impianti per le energie rinnovabili e ancor di più a proposito della rigenerazione edilizia finalizzata al risparmio energetico, investendo nella quale si realizzano moltiplicatori occupazioni molto rilevanti (attorno al 7,4 per milione di dollari).

La conclusione a cui arriviamo è che Torino ha bisogno in primo luogo di cambiare la narrazione egemonica. Ha poi in particolare bisogno di una forte diversificazione e rivisitazione critica delle direttrici di sviluppo individuate finora, non abbandonandole ma relativizzandole, cercando per loro condizioni di maggior robustezza. Si tratta in particolare di avere una presenza da costruire nella green economy e nella nuova mobilità; di promuovere insediamenti produttivi labour intensive di medio-alto livello tecnologico, in grado di assorbire un significativo numero di occupati di fasce professionali medio basse da riqualificare; di favorire contemporaneamente la domanda di alte qualificazioni e la nascita di startup trainata da tali insediamenti. In definitiva si tratta di creare significative opportunità occupazionali generate per linee esterne e in grado di far crescere la competitività del territorio in un quadro di competizione sistemica.

Sono direttrici non in alternativa o sostitutive di quelle finora perseguite, ma anzi in grado di recuperarne evidenti criticità e fiato corto che hanno manifestato. Una politica che assuma queste direttrici di sviluppo farebbe infatti da driver per trainare e finalizzare la nascita e lo sviluppo di startup, creando le condizioni di domanda e di mercato essenziali per dare forza a progetti imprenditoriali spesso commercialmente gracili e per attrarre su di essi investimenti, maggiormente confortati se spinti da prospettive di mercato meno aleatorie e da una domanda già espressa e consistente. Un altro esempio riguarda lo sforzo in atto, giustamente, sul tema 4.0, che va anche esso rivisitato criticamente: altrimenti si potrebbe arrivare al paradosso di puntare a migliorare processi destinati a produrre beni che non hanno più mercato, anziché capire come le tecnologie possono aiutare ad aprire nuovi mercati e ad ammodernare il modello stesso di impresa ed il suo posizionamento strategico.

Un aspetto di particolare rilievo riguarda  la riqualificazione edilizia e il suo possibile impatto su filiere di prodotti e di servizi integrate e abilitate da logiche di “piattaformizzazione”, capaci di generare effetti di modernizzazione del tessuto produttivo, attraverso ad esempio l’introduzione di marketplace, la digitalizzazione delle transazioni, l’innovazione di modelli di business tradizionalmente basti sui prodotti verso l’arricchimento di servizi nuovi (es. realtà virtuale, servizi finanziari online, chatbot, ecc.) e la loro integrazione con altri ambiti, ad esempio servizi finanziari, consulenza, ecc. In questa prospettiva i settori high tech non solo vengono valorizzati, ma trovano finalmente dei driver di sviluppo esogeni, generati dalla evoluzione dei settori industriali tradizionali che creano effetti leva sulla occupazione ben più significativi di quelli legati alla lenta crescita ed assorbimento di manodopera tipica delle startup, di cui trainano la crescita. Si tratta quindi di opportunità non solo importanti in sé (per il loro effetto occupazionale), ma anche per la innovazione complessiva della economia del territorio e della sua stessa cultura, favorendone una maggiore diversificazione e ammodernamento, anche sul piano degli equilibri di potere e della comparsa di nuovi attori, indispensabile per uscire dalle secche di un dibattito e di una narrazione ormai asfittiche.

La crisi pandemica sembra portare anche ad una rivisitazione dei modelli di consumo: cresce la domanda di prossimità (“shut-in economy”), quella di sostenibilità e di tutela ambientale. Tutti settori economici carichi di prospettive di sviluppo, su cui potrebbe far leva un nuovo equilibrio città-aree collinari e montane, in cui si concentrano enormi risorse per questo tipo di nuova domanda, a partire dal food e dal turismo, e che offrono l’opportunità di lanciare il paradigma emergente della “innovazione frugale”, anche in collegamento con l’area ligure e quella valdostana.

Queste politiche farebbero inoltre da traino per una rigenerazione e ri-funzionalizzazione urbana - in particolare per il riutilizzo dell’immensa dotazione di immobili vuoti e inutilizzati - che, anche qui, sembra priva di progettualità e di strategia, anche se forse non di immaginazione nell’individuare ipotesi di utilizzo degli spazi urbani, ma che spesso sanno di glamour, invece di riflettere  bisogni reali in grado di dare risposte strutturali e sostenibili, funzionali alle politiche di sviluppo e parte integrante di esse, piuttosto che  trovate a sé stanti. Agire sul contesto urbano rivitalizzando la prossimità e la vivibilità, anche in ottica di “città a 15 minuti”, contribuirebbe inoltre ad una indispensabile azione di inclusione e coesione, indispensabile per disinnescare la “bomba sociale” in agguato, anche attraverso un’azione strategica di coordinamento e focalizzazione delle politiche sociali sul tema della povertà. Tale rischio di esplosione si ferma in primo luogo creando occupazione e in secondo luogo con adeguate politiche del lavoro, con la leva formativa soprattutto. Ma ciò non toglie che resta e resteranno da affrontare rilevanti problematiche di povertà, marginalità ed esclusione, accentuate dal Covid.

I fattori abilitanti di queste politiche comprendono ai primi posti: la realizzazione di una massiva e diffusa azione di riqualificazione della forza lavoro in ottica di mercato del lavoro transizionale, all’interno di un rinnovato quadro di nuove relazioni industriali e di rimodulazione degli orari, che vanno sospinte e accompagnate dall’azione pubblica (azione che farebbe anche da traino di investimenti, ad esempio in innovazione tecnologica applicata alla formazione (EDUTECH-HRTECH).  E poi la capacità di attrarre nuova finanza, quella dei grossi investitori istituzionali, e d’intercettare nuovi strumenti e asset class finanziarie (es, legate al green e agli ESG); nonché quella di riaffermare il ruolo di Torino come hub di reti nell’area metropolitana e in quella cosiddetta “metro-montana”.

Il Comune deve riorganizzare la sua macchina, anche attraverso massicce azioni di formazione del personale. In primo luogo per metterla meglio in grado di assicurare i servizi e le attività di tipo regolatorio, in maniera da rendere Torino un contesto funzionale, agile, snello, deburocratizzato e vivibile. In secondo luogo, per contribuire alla realizzazione degli obiettivi strategici più ampi, che travalicano le prerogative e le leve azionabili da un’amministrazione e che sono agiti in particolare a livello politico. Rispetto a questi l’amministrazione comunale può però gestire azioni di natura operativa, quali lo scouting delle opportunità di progettualità e di insediamento necessarie per attuare il processo di riconversione produttiva della città, contribuire ad esso direttamente nelle aree di intervento diretto che le sono proprie (es. urbanistica), favorire lacoesione sociale.

Più volte in questo documento è ricorso il termine strategia. Ma i piani strategici servono? Occorre certamente darsi una strategia, tuttavia intesa soprattutto come capacità di visione e di sintesi. Nessuna realtà, può ora permettersi tempi e processi ponderosi per elaborare pesanti piani. Dalla crisi del 2008 in poi e a causa di una progressiva e quasi esponenziale impennata della complessità sistemica, della incertezza, dell’agguato dei fenomeni inattesi, ma di devastante impatto (la teoria nascente della “regression to the tail” a seguito della pandemia), tutte le analisi e le strumentazioni con cui affrontare la complessità rimandano a modelli non lineari, alla relativizzazione di approcci tipici del problem solving (poco utili in contesti in cui neppur si conoscono le domande), all’importanza della agilità e rapidità di risposta (“guerrilla marketing”), alla necessità di approcci “resource based”, centrati sulle azioni volte e conoscere, mantenere e far crescere le competenze strategiche e distintive. L’armamentario gestionale si è arricchito e innovato e i piani strategici sono finiti in soffitta, come è ovvio quando ci si deve muovere rapidamente in un contesto fluido e imprevedibile. Non a caso si inizia a parlare di “organizzazione fluida”. Quindi la risposta è: essere strategici senza fare piani strategici.

Torino dovrebbe intraprendere decisamente una nuova strada anche sul piano normativo e della comunicazione: la tutela ambientale, lo sviluppo sicuro e non solo sostenibile (la pandemia accentua questa non banale traslazione di denominazioni, stante l’evidente fragilità sistemica che ha messo in luce) può diventare uno dei “nuovi mandati” della azione amministrativa, imponendo il cosiddetto “mandato ecologico”, anche attribuendo agli atti che ne discendono una motivazione “con riserva di scienza”, che rimanda all’accreditato e ponderoso quadro di studi ormai esistente e a modelli di valutazione “evidence based delle politiche pubbliche

Ma per fare tutto questo Torino deve diventare, in sintesi, sempre più multipolare, multicentrica, multi culturale, multi business, multi rete, e sempre meno mono-polo-tecnica. Deve diventare “repubblicana”, scrollarsi di dosso le logiche di regime, di salotto e di sindrome da zona ZTL, creare nuove classi dirigenti, essere meritocratica, dialogica, aprirsi, prendere “aria fresca”, osare, forse anche celebrare sani riti di liberazione psicologica dall’essere stata capitale e dover per forza diventare capitale di qualcosa…..

Di che sindaco ha bisogno? Non può che essere un soggetto con una storia ed esperienze variegate e diverse, che ha visto molti mondi e parla più linguaggi; comprende e sa interpretare culture diverse; è poliedrico; è inclusivo; non pretende di essere portatore di una cultura dominante e non si vive come un predestinato; è consapevole come diceva Pascal che “quello che è vero a Parigi non è più vero oltre i Pirenei”;  sa ascoltare; sa che oltre la ZTL di Torino non si salta subito al MIT  di Boston, ma ci sono le Vallette, Falchera, Aurora, Mirafiori sud, ma che sa anche parlare al MIT.

Occorre anche fare qualcosa sul piano dei metodi di partecipazione e di formazione del consenso, al fine di non ridurre il confronto e la elaborazione alla mera celebrazione di rituali. L’ascolto, la elaborazione, la produzione e la condivisione di idee e proposte, la sana azione di convincimento e di influenzamento delle idee degli altri, tipiche di una politica appunto sana e non manipolatrice, si devono alimentare di approcci partecipativi innovativi. Citiamo a tal proposito metodologie di dibattito pubblico quali world cafè, deep canvassing, poco o nulla conosciuto in Italia, ma molto efficaci per un confronto “gentile” in cui le persone non sono contenitori da riempire di messaggi, ma attori di una rielaborazione delle proprie convinzioni e pregiudizi.

Torino ha infine bisogno di un vero civismo che si esprime nel mettere a disposizione idee e proposte, confrontarle e comporle con quelle di altri attraverso un confronto dialogico, trovare una identità di fondo e sottoporre a tutte le forze politiche una piattaforma, per verificare se e quanto ne siano vicini e lontani o che proposte alternative fanno, in confronti pubblici, aperti.

*Marcello Bogetti, direttore LabNET Scuola di Amministrazione Aziendale Università di Torino

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