Decentramento in quarantena

L’art. 5 della Costituzione stabilisce che “La Repubblica italiana, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali e attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo”. Il principio del decentramento è esplicitato inoltre agli art. 114-133 della Costituzione: assetto organizzativo della Repubblica.

Il decentramento, uno dei cardini fondamentali dell’organizzazione amministrativa italiana, dovrebbe consentire la più ampia partecipazione della collettività alla vita democratica del Paese, nonché la cura degli interessi pubblici nel rispetto della trasparenza burocratica.

Nel 1970 è avvenuto il trasferimento alle Regioni a Statuto ordinario di svariate funzioni statali sulla base degli art. 117 e 118 della Costituzione, mentre nel 1997 la Legge Bassanini ha stabilito il conferimento agli enti locali di poteri inerenti alcune materie (tra cui sviluppo economico e attività produttive, territorio, ambiente e infrastrutture): il primo passo verso il cosiddetto “Federalismo a Costituzione invariata”.

Con le riforme varate nei decenni scorsi si volevano avvicinare le istituzioni ai territori di riferimento e ai cittadini. Questi ultimi ne avrebbero beneficiato anche sul fronte dei servizi: più capillari e quindi capaci di soddisfare al meglio gran parte delle esigenze comunitarie.

Secondo il legislatore era possibile contrastare l’accentramento dei poteri statali mantenendo al contempo l’unità del Paese, nonché i valori solidali universali. Un buon proposito politico che ha generato molte speranze e qualche esempio di buona pratica, ma destinato a spegnersi nel giro di poco tempo. Una fine ineluttabile e accelerata dal virus che ha stravolto esecutivi, società e welfare.

Il Covid19 ha infatti costretto il governo centrale a prendere decisioni, a suon di Dpcm, in sostituzione del latitante buon senso dei cittadini. Il contagio da coronavirus (che fortunatamente non è trasmissibile da persona a persona con la stessa facilità con cui ci si ammala di ebola e di morbillo) sarebbe evitabile con il rispetto di poche norme igieniche e civiche. Mancando generalmente l’attenzione verso il prossimo, e in assenza di misure adeguate al periodo (rafforzamento Sanità e trasporti), sono tornate le chiusure della cosiddetta “Seconda ondata”. Una scelta sicuramente non facile, la cui gravità è rimarcata dall’uso da parte dei giornalisti di termini mutuati direttamente dal diritto militare: coprifuoco, divieto di assembramenti, consegna nei propri alloggi.

Una difficile situazione emergenziale a cui è conseguita la suddivisione dell’Italia in regioni rosse, arancioni e gialle: colori indicanti lo stato di diffusione del virus nei vari ambiti geografici. Le Regioni hanno condiviso e sottoscritto le complesse fasi di redazione del recente Dpcm, e quindi le sofferte misure in esso contenute, salvo osteggiarle pochi minuti dopo la loro entrata in vigore.

Solamente dal mese di marzo scorso gli italiani hanno iniziato a sentir parlare di “Regioni” e a riconoscere in televisione i volti dei loro presidenti. Il Covid ha messo sotto il riflettore una realtà territoriale rimasta nell’ombra per decenni. Un protagonismo improvviso che ha coinciso con la presa d’atto del fallimento del sistema stesso. L’attuale contrapposizione Regioni-Stato, a cui assistiamo quotidianamente, è strumentale a un’incontenibile voglia di consenso da parte degli esecutivi regionali, i quali interpretano l’ambiguo ruolo di “tutori della libertà contro la dittatura sanitaria”. Una sorta di doppio gioco fatto spesso sulle spalle dei cittadini, soprattutto su quelle di chi ora giace nei letti dei reparti di terapia intensiva.

Sono pochi coloro che hanno chiara la responsabilità delle Regioni nella gestione della Sanità. Molti non sanno che il taglio dei letti e degli ospedali, inclusa la crescente privatizzazione, sono sempre stati decisi nelle sedi del potere locale. È la Regione che oggi stabilisce a chi fare i tamponi e come farli, rischiando di tenere fuori dal monitoraggio sanitario gli asintomatici, ed è la Regione che nei mesi estivi non ha migliorato il suo sistema sanitario in previsione di una probabile seconda ondata.

Assistiamo inermi a un continuo rimbalzo di colpe che ha per finalità il solo “consenso” popolare, mai purtroppo ad una coraggiosa assunzione di responsabilità innanzi al proprio elettorato. Stessa cosa accade malauguratamente in molte circoscrizioni, come ad esempio alla 2 di Torino. Il decentramento a Torino Sud infatti si palesa solamente dando contributi alle parrocchie, per sostenere attività che dovrebbero essere istituzionali, oppure finanziando neonate associazioni di commercianti per aiutare progetti di stampo imprenditoriale più che sociale. Quando sorgono problemi è sufficiente scaricare sul Comune tutte le proprie inefficienze e inettitudini, così da tutelare l’immagine della giunta senza dedicare energie per difendere i servizi sul territorio: minima fatica, massimo profitto.

Decentramento non equivale più a “essere vicini alla gente”: il sogno del legislatore è giunto alla sua consunzione mortale per manifesta incapacità dei quadri politici locali.

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