DOPO IL COVID

Diciamo addio alle mascherine

Tranquilli, nessun messaggio negazionista. È la metafora di Pinocchio che Giacalone usa per indicare i mali atavici di un Paese portato a "conservare l'inconservabile". Cambiano solo gli imbonitori di turno. Ma la tragedia offre anche grandi opportunità

“Significa poco dire che dopo questa pandemia con tutto quel che si porta appresso nulla sarà più come prima. Bisogna intendersi in quale senso. Se per andare oltre, imparando dagli errori, o per sperare follemente di tornare indietro”. E, per quel dopo, gli italiani avranno smesso di dividersi tifando chi per il gatto, chi per la volpe e compreso che dire “Addio mascherine” non significherà solo essersi lasciati alle spalle una terribile stagione, ma in quella frase rubata a Pinocchio, ormai consapevole che i soldi non si fanno seminandoli, ci sarà una nuova e necessaria consapevolezza per il futuro del Paese?

Davide Giacalone, vicepresidente della Fondazione Einaudi, scrittore e saggista con un lontano passato da segretario nazionale dei Giovani Repubblicani, capo della segreteria di Giovanni Spadolini a Palazzo Chigi e poi consigliere del ministro Oscar Mammì nel cruciale periodo della riforma del sistema radiotelevisivo, gioca sul doppio significato intitolando il suo ultimo libro proprio Addio mascherine (ed. Rubbettino) in cui, tra l’altro richiama alla necessità di uscire da quella che definisce “la politica della conservazione dell’inconservabile”.

Giacalone, lei non usa giri di parole e mette in conto di suscitare reazioni non propriamente benevole. Lo fa, per esempio, quando definisce un’Italia tremula e piagnona in contrapposizione all’Italia coraggiosa che sa competere. E, ancora, quando spiega che il virus può essere un’opportunità. Parole dure, non crede?
“Naturalmente quando parlo di un’Italia tremula e piagnona non mi riferisco certo al comportamento davanti alla tragedia di questa pandemia che ha fatto migliaia di morti e che ancora miete drammi e lutti. La definizione è per una gran parte di un Paese che a gennaio, prima della comparsa del Coronavirus, era quello con il più alto debito pubblico e che cresceva meno. In questa situazione l’atteggiamento è stato ancora una volta quello di cercare di dare sempre la colpa ad altri, la globalizzazione, l’Europa e qualunque cosa pur di scaricare le responsabilità”.

Un mese dopo il Paese è stato travolto dal virus che poi spiegherà perché lo ritiene un’opportunità. Intanto arriva e colpisce un’Italia piegata dalla crisi. Ne scopre anche aspetti evidenti ma in qualche modo tenuti nascosti sul fronte dell’economia?
“Quando è arrivato il virus ha reso evidente ciò quello che era già chiaro a chiunque leggesse la realtà dal 2012, ovvero che la sostenibilità del nostro debito era dovuta essenzialmente alla copertura della Banca Centrale Europea. C’è una balla che ci raccontiamo da anni a noi stessi ovvero che si voglia cambiare, che gli italiani sono per il cambiamento”.

Non crede che sia così?
“È vero l’esatto opposto. La gran parte sarebbe per una conservazione di una realtà che non esiste più e che forse non è neanche mai esistita. Quindi cosa cambiano? Cambiano gli imbonitori di turno che promettono di poter non cambiare: sempre più pensioni, più aiuti, più soldi 

Quella che lei definisce la conservazione dell’inconservabile?
“L’illusione che si possa campare a debito”.

Che ha radici profonde. Cosa è mancato per cambiare davvero?
“La visione. Uno dice Torino, se sei uno generoso con te stesso pensi a Olivetti, se sei un po’ meno generoso ti viene in mente la Fiat. Ecco pensiamo alla Fiat, quando hai lungamente protetto la tua industria nazionale ti sei beccato la Duna, quando non sei più riuscito a proteggerla sono cambiati anche i modelli, adesso potrei comprare con gioia una macchina della Fca. Quell’Italia lì era un Paese dove si facevano errori e accumulavamo debito. Ma se si pensa al patrimonio delle famiglie all’inizio degli anni Settanta era mediamente tre volte il reddito annuo, come in Germania; adesso il patrimonio delle famiglie tedesche è sei volte mentre quello italiano è nove volte, per cui nella memoria collettiva quegli anni che hanno innestato i problemi che ci gravano sulle spalle oggi erano quasi un mito positivo. In effetti magari uno pensa alla casa acquistata allora, ma vediamo come è andato a finire il debito pubblico. Abbiamo più della metà delle pensioni attualmente in pagamento che non sono basate su contributi versati. Poi è arrivata pure quota cento, l’ultima grande vendita dell’imbonitore, di cui vediamo purtroppo anche i riflessi sulla sanità in questo periodo drammatico”. 

Una sanità che al netto dello spirito di abnegazione di molti ha mostrato e sta purtroppo mostrando tutte le sue inefficienze. Tutta colpa dei tagli?
“La convinzione ampiamente diffusa è che la nostra sanità non funzioni come quella tedesca, perché noi abbiamo tagliato al spesa della sanità. Tagliato un corno, la spesa è sempre cresciuta con la sola eccezione del bilancio 2013-14, solo che si è riusciti a buttare via soldi, spendendoli male”.

Arriviamo al virus come opportunità.
”Ovviamente è un disastro, ha fatto migliaia di morti e continua a farne e speriamo di uscirne presto. Guardando sotto il profilo del cambiamento vero, è però un’opportunità, almeno per un paio di ragioni. La prima è che a gennaio avevamo un debito totalmente fuori controllo. Da febbraio il debito di tutti i Paesi è molto cresciuto e ormai si è dovuto prendere atto che una parte consistente dei debiti pubblici dovrà essere in qualche modo sterilizzata: per noi è un’opportunità, la politica della Bce è stabilmente indirizzata ad abbassare il prezzo dei nostri debiti. La seconda opportunità è che si riapre una significativa stagione di investimenti pubblici. Se non si indirizzano a cullare e accudire i sintomi della pandemia, ma invece si destinano dove ci sono ritardi strutturali – strade ospedali, ma ancor prima scuole – dal 2023 quando tutto sarà alle spalle si potrà acquisire un ritmo di crescita per riportare sotto controllo il debito”.

Lei è tra coloro che di fronte alla sequela di Dpcm avverte del rischio di un’assunzione di pieni poteri da parte del premier?
“In uno stato di diritto i pieni poteri, semplicemente, non esistono. Anche lo stato di emergenza è una concentrazione di potere, ma non credo si sia leso alcun principio di libertà. Mi sembra una polemica inutile. Il problema è che siamo in stato di emergenza da gennaio e ancora stiamo a discutere se un provvedimento lo deve assumere il Governo oppure le Regioni. La verità è che si concentrano i poteri e si decentrano le responsabilità”.

Il fallimento della regionalizzazione della sanità? 
“L’errore clamoroso è stato commesso nel 2001 con la riforma del Titolo V della Costituzione che fu votato per cercare di fregare la Lega alla elezioni, con il risultato che la Lega vinse e ci è rimasto sulla spalle quella roba lì. L’attuale sistema è una totale follia. Il Covid ci ha insegnato, anzi è stata l’ulteriore conferma che una sanità regionalizzata non può funzionare”.

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