Evasione, il nemico non è il contante

Evasione fiscale e debiti tributari: due zavorre che da troppo tempo trasciniamo. Le stime che vorrebbero misurare l’evasione fiscale si sprecano, spesso dando letteralmente i numeri: per definizione, quantificare un fenomeno sommerso altro non può essere che una assai larga approssimazione. Ad ogni buon conto, secondo il rapporto Istat dell’ottobre 2019, l’evasione Irpef, Ires, Iva, Irap e Locazioni – la sola che qui ci interessa – ammonta a circa 90 miliardi di euro. Da alcuni anni poi, si è affermato il convincimento che l’evasione fiscale vada di pari passo con l’uso del contante senza tuttavia che alcun documentale nesso causale sia mai intervenuto a provarlo; anzi.

Il limite all’utilizzo delle banconote esiste infatti in alcuni Paesi e non in altri, Ue ed extra Ue. Nessun limite in Germania, Gran Bretagna, Finlandia e Svezia: si può comprare un palazzo in contanti. Sennonché in Germania la moneta elettronica non è più utilizzata che in Italia, mentre le altre tre nazioni, la Svezia su tutte, sono oramai cashless society. Ciò dovrebbe essere sufficiente da un lato a sbugiardare il sinallagma impropriamente utilizzato per invocare la limitazione del cash quale pre-condizione per la diffusione della moneta elettronica, dall’altro per rassegnarsi al fatto che la possibilità di ricorrere al contante per pagamenti di qualunque importo non determina di per sé evasione fiscale: per quanto bassa possa essere la soglia di legge del cash, non darà naturalmente mai luogo ad un pagamento “in nero” attraverso bonifico o carta di credito. Pagare in contanti deve quindi essere possibile a condizione che il percettore della somma emetta regolare scontrino o fattura: questo è il solo punto dirimente!

E come si fa a ottenere tanta agognata fedeltà fiscale? Interponendo interessi divergenti tra i due attori del negozio, come avviene rutinariamente tra persone giuridiche. Il miglior esempio da portare è la detrazione per le spese di ristrutturazione delle nostre case, provvidenzialmente introdotta anni fa, prima della quale l’offerta di uno sconto da parte dell’appaltatore o analoga richiesta del cliente al fine di sottrarre alla fatturazione quote del corrispettivo, erano spessissimo condizione sufficiente per veder evasa dapprima l’Iva e quindi Ires, Irap, Irpef: l’interesse reciproco dei due attori convergeva sovente in danno all’erario. La tendenza è improvvisamente cambiata con l’introduzione di un beneficio fiscale per il committente persona fisica – nella specie pari al 50 percento della spesa entro i successivi dieci anni – che ha efficacemente contrapposto i reciproci interessi.

A fronte quindi di una rilevante convenienza tributaria riservata al committente, si è fatta emergere una assai remunerativa base imponibile, con un saldo finale di gran lunga positivo per le casse dello Stato. Non c’è quindi da far altro che emulare tale schema verso ogni prestazione di servizi o vendita di beni, eccettuando unicamente lo stretto dispensabile come, ad esempio, i premi assicurativi. Da un lato lo Stato riconosce una ben elevata detrazione alla parte acquirente ma differendone l’efficacia nel successivo decennio, dall’altro vede emergere immediatamente materia imponibile prima evasa.

Qualcuno ha mai avuto il piacere di uno scontrino da una lavanderia? Determinando interessi opposti tra i due attori di un negozio, avremo invece cura di richiedere sempre il documento fiscale poiché il nostro vantaggio risulterà – pur in dieci anni – tanto rilevante da disarmare qualunque diversa opzione in danno al fisco. Aggredire quegli ignobili 90 miliardi di evasione passa per simili scelte, certo non per l’inutile afflizione del contante: se lo scontrino della lavanderia sarà per ognuno di noi così prezioso fiscalmente, il pagamento in contanti non ne comprometterà affatto l’emissione; e così sino all'acquisto di un palazzo.

Ripudiando chiacchiere e proclami, si tratta di voler davvero vincere una battaglia di civiltà, sacrosanta e necessaria. E sempre in tema di civiltà, veniamo all’altra zavorra, quella dei debiti che milioni di italiani hanno verso il fisco: un macigno, sulla carta, da quasi mille miliardi di euro. E non meno mostruoso è il complessivo numero di contribuenti, tra persone fisiche e giuridiche, che risultano avere debiti a vario titolo con gli enti creditori: 21 milioni di soggetti limitandoci a quelli già affidati alla riscossione. Nel corso dell’ultima audizione alla Camera dei Deputati, il direttore dell’Agenzia delle Entrate Ernesto Maria Ruffini, ha comunicato il complessivo ammontare allo scorso 30 giugno dei crediti dello Stato e degli enti locali e previdenziali: 987 miliardi; erano 818 nel 2016. A dispetto delle varie misure nel mentre introdotte, dalla rottamazione delle cartelle agli stralci sino ad alcune cancellazioni, il macigno è cresciuto di oltre 40 miliardi all’anno; ed a causa del Covid è fin troppo chiaro che crescerà ulteriormente.

Ben più della classe politica, Ruffini ha il pregio dell’obiettività riconoscendo infatti che la cifra su cui le azioni di recupero potranno “ragionevolmente avere più efficacia” ammonta a soli 61,9 miliardi, poco più del 6percento del totale: ecco il reale “magazzino lavorabile” dall’ente di riscossione. E infatti il 35 percento dei crediti ha più di dieci anni; 153 miliardi sono dovuti da soggetti falliti, 118 da persone decedute e imprese cessate, 110 da nullatenenti; per altri 69 miliardi la riscossione è sospesa per i provvedimenti di autotutela emessi da enti creditori o sentenze dell’autorità giudiziaria; 15 miliardi sono oggetto di rateizzazioni in corso; 80 miliardi si riferiscono a posizioni non lavorabili per effetto delle norme a favore dei contribuenti (soglia minima per l’iscrizione ipotecaria, limiti alla pignorabilità della prima casa, dei beni strumentali, degli stipendi, etc); per buona parte infine di quel che resta, 410 miliardi riguardano contribuenti verso i quali negli anni sono già state invano tentate azioni di riscossione che, altrettanto inutilmente, verranno comunque ripetute. Nel frattempo continuano a cadere inascoltati i caveat che, dall'Ocse al Fmi, gli organismi internazionali ci indirizzano affinché si proceda alla cancellazione dal bilancio dello Stato dei debiti arretrati ed inesigibili così da evitare gravi ripercussioni contabili che presto o tardi finiremo col patire.

Ragionando attentamente sui numeri offerti da Ruffini, saltano maggiormente all'occhio oltre 500 miliardi di crediti vantati verso nullatenenti (110 mld) o soggetti nei cui confronti è risultato infruttuoso ogni tentativo di riscossione (410 mld), in qualche modo pertanto nullatenenti anch’essi, quanto meno per le possibilità erariali di esazione. Si tratta di una somma gigantesca, quasi un terzo del Pil, il 20 percento del debito pubblico, a tal punto ciclopica che le causali d’ordinanza dell'Agenzia delle Entrate non ne esauriscono affatto la comprensione; mezzo trilione di euro è un importo che non può credibilmente “galleggiare” nelle poste a credito dello Stato (e tanto meno in quelle a debito di artigiani e famiglie) senza mostrare, appena a volerla scorgere, la sua vera natura. Se realmente si trattasse di soggetti del tutto incapienti, anziché presenti per anni e anni in tale statistica, nel giro di qualche settimana li dovremmo trovare contabilizzati tra i deceduti (per stenti) o tra le imprese cessate; e invece non accade. Dov’è il trucco? Al netto di una quota di malfattori abituali, questi soldi non si recuperano perché chiamati a scegliere tra il sostentamento della propria famiglia o il soddisfacimento dell'Agenzia delle Entrate, tantissimi connazionali si regolano come ognuno di noi farebbe in una simile situazione: primum vivere.

La genesi di milioni di casi è più o meno sempre la stessa: si è aperta una partita iva, una impresa o più spesso microimpresa quasi mai società di capitali, nei primi due o tre anni per finanziarne l'avviamento si sono lasciati indietro da pagare contributi, iva, tassa rifiuti e così via, l'attività non ha ingranato come sperato e sono arrivati i primi avvisi, poi le iscrizioni a ruolo, e solo troppo tardi si prende coscienza di tutte le cartelle rese nel frattempo insolute. Per capirci: il più ordinario dei bar in un triennio di simile andazzo accumula con disinvoltura 150 mila euro di passività; divenuti cartelle e colpiti da sanzioni, aggi, interessi l'importo raddoppia. Da quel momento si entra in clandestinità. Al solo scopo di non essere aggrediti dalle legittime pretese del fisco si lavora in nero, nessun conto corrente, neppure un motorino intestato; e i più fortunati per scansare i pignoramenti ricorrono ai parenti a mo' di fiduciaria. Ogni tentativo di venirne fuori va a sbattere – sino alla desistenza – contro i numeri: oggi la norma prevede – e neppure sempre – una rateazione massima assentibile di 120 mesi; nel caso dei 300 mila euro di cartelle del bar di poc'anzi, vuol dire 2.500 euro al mese oltre interessi per dieci anni; ma i soldi son finiti perché il bar non ha funzionato e quindi o mangiare o pagare lo Stato; naturalmente il cittadino rimane in clandestinità, milioni di cittadini, e lo Stato non incassa un soldo, anzi prosegue in costosi e inani tentativi di riscossione. Ammantata da “pace sociale”, qualcuno ha proposto di aggredire il fenomeno, quando non con un condono tombale, attraverso operazioni di saldo e stralcio “one to one”; si tratta di una ipotesi che comprometterebbe pericolosamente la tenuta del sistema di esazione tributaria: una simile opportunità renderebbe infedele il contribuente più specchiato. È invece necessario ragionare al contrario ovvero indossare i panni del debitore. Se siamo disposti a ritenere – ed è il mio caso – che ove messa nella condizione di adempiere, al fine innanzitutto di uscire dalla clandestinità, tanta parte della platea degli obbligati prenderebbe a pagare, si tratta di ricondurre per costoro ciascuna singola rata entro margini di reale sostenibilità. In modo proattivo, lo Stato deve accettare dallo sventurato barista qui preso ad esempio, un piano di rientro a 20, 30 o 40 anni ossia fino al punto in cui la rateazione non eccederà la quinta parte del reddito; se necessario anche vita natural durante. Dal momento della adesione, il saldo a credito dell'erario viene cristallizzato al lordo di interessi, sanzioni, aggi, more, etc, per essere da lì in avanti colpito unicamente dagli interessi legali: nessun dannato condono, ognuno paga per come è in grado, avendo posto la rata all'altezza delle possibilità del debitore; e non il contrario. A che serve del resto irrigidirsi su rateazioni a 5 o 10 anni cui milioni di contribuenti non riescono ad aderire? Non è forse innanzitutto interesse del creditore porre l’obbligato in condizione di sdebitarsi? Lo Stato non ci rimetterebbe nulla posto che – come ammette Ruffini – si tratta di denaro che altrimenti non verrebbe mai recuperato; ed anzi, data l'enorme somma in esame, attendersi un gettito annuale di qualche miliardo è tutt'altro che avventuroso. Al fondo però, se ci muove l'ambizione di una autentica pace sociale, ebbene è giusto permettere di voltar pagina a tutti quei cittadini pronti a farlo, con dignità; e se col placet del Tribunale di Genova alla Lega di Salvini è stata permessa la restituzione di 49 milioni di euro in 75 anni, al nostro barista non possiamo sbattere la porta in faccia.

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