Un "progetto" per la rinascita dell'Italia

Se Draghi farà bene, orienterà al meglio gli attesissimi fondi europei al punto da metterli in sicurezza anche oltre il suo governo, ponendo allìun tempo mano allo sblocco degli sfratti, dei licenziamenti, alla rimodulazione selettiva dei ristori, al sostegno pubblico alle imprese e alle famiglie; se farà male, non otterrà che in piccola parte i fondi comunitari, dovendo tuttavia ugualmente intervenire su sfratti, licenziamenti, indennizzi e così via. Nel primo caso dovrà scontentare molti; nel secondo scontenterà quasi tutti. Il partito di Giorgia Meloni – esso soltanto – incasserà in entrambi i casi un dividendo elettorale formidabile.

Non si può quindi non fare il tifo per Mario Draghi ossia per l’Italia, tributandogli sin d’ora comunque vadano le cose uno spirito di servizio ed una generosità esemplari; è senz'altro vero che lo slogan “governo dei migliori” proprio non si accorda con le generalità di alcuni ministri e sottosegretari, ma in un grande afflato catartico di unità nazionale si arriva perfino a discolpare una tanto incauta definizione. Siamo quindi tutti chiamati a fare ben più del nostro meglio, cogliendo l’occasione offerta dalle misure straordinarie anti Covid, certamente l’ultima a nostra disposizione, per correggere stabilmente la traiettoria della nostra economia: dopo vent’anni di stagnazione permanente effettiva, Pil inchiodato a cavallo dello zero (+0,3% medio dal '99 al '19) e arretramento costante in qualunque statistica economica e di benessere sociale, saremo all’altezza del compito che ci attende solo se nel prossimo decennio il nostro saggio di sviluppo annuo non sarà inferiore al 3%.

Questo è il bersaglio da tenere fisso nel mirino: almeno il 30% di crescita a tutto il 2030. Più o meno un secolo fa qualcuno diceva che è più facile spezzare un atomo che un pregiudizio ed in effetti mentre scrivo di simili prospettive, mi ritrovo io stesso perplesso al cospetto di un obiettivo che appare così tanto ambizioso, ma mi rendo anche conto di essere in realtà – come molti di noi – vittima appunto di un pregiudizio verso noi stessi, il quale trae origine dall’asfittico comportamento della nostra economia negli anni Duemila. La ragione per cui il Paese non cresce da vent’anni – oramai confido arcinota anche alle pietre – è una soltanto: non abbiamo investito denaro nello sviluppo. Scrivo da tempo a proposito delle motivazioni che hanno determinato tale stato di cose: per un verso le nostre molte mancanze, e più ancora le rigidità di bilancio figlie dei trattati comunitari. Dopodiché è arrivato il Covid che ha dato luogo alla radicale ridefinizione dei parametri economici europei, riuscendo a disarticolare, sino alla nascita degli eurobond, le posizioni dei peggiori falchi antieuropeisti.

Limitandoci a Next Generation EU, tra il 2021 e il 2027 dovremo pertanto dare impiego a circa 200 miliardi di fondi comunitari i quali – viene preteso – dovranno essere allocati su sei distinti capitoli di spesa: digitalizzazione, transizione ecologica, infrastrutture, istruzione, coesione, salute; in parte prestiti ed in parte erogazioni a fondo perduto, si tratta in ogni caso del tanto agognato propellente per finanziare gli investimenti. Né clientele né spesa elettoralistica: investimenti.

In queste ore il nostro governo è silenziosamente all’opera per produrre entro il prossimo aprile il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (Pnrr) che col successivo mese di giugno la Ue approverà; tale Piano, whatever it takes, verrà redatto in tempo utile ed al meglio: la statura dell’estensore è tale da non ammettere dubbio alcuno al riguardo. Subito dopo, dal secondo semestre 2021, dovremo iniziare ad investire e così per i successivi sei anni, in modo organico, efficiente, ancorati a cronoprogrammi la cui osservanza andrà dogmatizzata alla stregua di libri sacri, centrando passo dopo passo tutti gli obiettivi ricompresi nel Pnrr sotto pena di interruzione del carburante europeo ossia a costo dell’osso del collo; sono certo che a tale fine viene a tutti in mente un solo modello di successo e cioè il Ponte san Giorgio a Genova, per essere stato un (isolato) esempio di eccezionale capacità corale tutta italiana: con buona pace dei detrattori di tale schema, esso dovrà imperare indisturbato. E non è necessario evocare lo spettro di precedenti “modelli” come la Salerno-Reggio Calabria o la Cuneo-Asti per atterrire, basta riferirsi ai 15 anni mediamente necessari in Italia per realizzare una grande opera pubblica o all'imbarazzante 65percento di fondi strutturali europei lasciati inutilizzati nella pastoia burocratica nazionale già prima del Covid.

Mario Draghi ha chiari a tal punto tali nodi di inefficienza della macchina dello Stato, da esordire nel primo discorso da premier presso la Corte dei Conti col preciso ammonimento verso la “fuga dalla firma” di dirigenti e funzionari pubblici, volendo significare che velocità e cultura del risultato saranno cifra del preteso cambio di passo della pubblica amministrazione, espugnata attraverso il modello commissariale genovese.

Tornando ai 200 miliardi di fondi Ue, essi vanno posti a confronto in chiave tendenziale con i saldi di finanza pubblica nazionale, i quali nel 2020 restituiscono Pil a 1650 miliardi e debito a 2600 miliardi, dove – per usare di nuovo le parole di Draghi – lo Stato dovrà ancora utilizzare il proprio bilancio per proteggere l’economia e i cittadini dallo shock pandemico.

A ben vedere quindi l’impatto della provvista comunitaria sulla nostra economia raggiungerà – se ben allocata – una autonoma incidenza attorno al 12% in 6 anni, ovvero 2% annuo; naturalmente tale esemplificazione non tiene conto dell’effetto prociclico che quegli stessi investimenti senza meno determineranno e con esso del relativo gettito tributario, tuttavia pure chiarisce che non vi è alcun possibile margine di spreco, tanto più trattandosi per circa 2/3 di prestiti da rifondere; ed infatti anche all’esito di sei anni di crescita in ragione del 20% complessivamente, il nostro Pil si attesterà attorno a 2000 miliardi ma la dimensione del nostro debito a 2800 miliardi, in rapporto tutt’altro che riposante tra loro al 140%: quando nel 1992 il governo Amato saccheggiò i conti correnti della nazione, quel rapporto era al 120%.

La domanda dunque è: basteranno i fondi NGEU per permettere alla nostra economia di crescere nella misura realmente necessaria? Possiamo fare di meglio? Possiamo fare di più? E come?

Per rispondere positivamente a queste domande occorre mettere in campo ulteriori risorse in misura accostabile a quelle comunitarie, non già a debito comunque approvvigionato, bensì attraverso equity tratto dal bilancio nazionale; dobbiamo cioè trovare altri 200 miliardi di soli mezzi propri da investire nella stessa finestra temporale del Pnrr in modo da raddoppiare l’impatto atteso sulla nostra economia, infine riuscendo a raggiungere quel 30% di crescita entro il 2030 che abbiamo messo nel mirino. È possibile. Bisogna essere capaci, per così dire, di declinare Cassa Depositi e Prestiti come una nuova Mediobanca, avendo chiaro in testa cosa invece accadrebbe a farne un’altra Iri. Nulla a che vedere, sia subito chiaro, col progetto Capricorn di Renzi il quale, per chi lo ricorda, altro non era che il tentativo (maldestro quanto il suo autore) di scucire a Cdp una ventina di miliardi trasferendole le partecipazioni del Mef nelle maggiori società quotate: nulla a che vedere.

È un discorso un po’ lungo, ma vale la pena affrontarlo e mi aiuta a spiegarmi “Progetto Italia”. Nell’estate 2019 il maggior operatore italiano delle costruzioni, Salini-Impregilo, avanza una offerta vincolante per rilevare il secondo player nazionale, Astaldi, caduto in procedura concorsuale; l’obiettivo è raggiungere una dimensione d’impresa accostabile ai maggiori general contractor esteri che dominano la scena mondiale. L’operazione appare subito credibile, una vera operazione “di sistema” che da vita ad un gruppo da 6 mld di fatturato, oltre 40 mld di ordini in portafoglio e 70 mila addetti. Progetto Italia – oggi WeBuild – viene strutturata attraverso un aumento di capitale da 600 milioni al quale Cdp partecipa per 250, le banche per 150 ed altrettanto viene riservato ad investitori istituzionali. Tanto piace l’operazione che in sede di aumento di capitale entrano nomi pesanti del mondo finanziario e imprenditoriale: da Del Vecchio al fondo Elliot; e poco dopo, a fine 2020, con l’emissione del primo bond da 550 milioni targato WeBuild, la domanda è pari a tre volte i titoli in offerta. Oggi il libro soci di WeBuild vede Salini-Impregilo primo azionista al 45%, Cdp al 19%, le banche all’11% ed il 25% flottante sul mercato; per effetto degli accordi di governance, Cdp esprime 5 membri in Cda – tra cui il presidente – ed è investitore finanziario di lungo termine; altrettanti membri esprime il socio industriale Salini-Impregilo, tra cui il Ceo, al quale è però riservato ogni ruolo esecutivo. Una vera, ben fatta, operazione “di sistema” che attraverso il coinvolgimento del braccio finanziario dello Stato, ha immediatamente assegnato grande credibilità al progetto, ha permesso di salvare posti di lavoro e competenze sottraendo Astaldi alla liquidazione ed incorporandola in un più grande gruppo sano ed attrezzato, in ultimo anche dimensionalmente, per competere a livello globale. Cdp ha agito a mo’ di Fondo Sovrano attraverso l’acquisizione di una quota solo finanziaria e di minoranza che lascia la guida dell’azienda a chi ne è capace, ma imprimendo il marchio dello Stato italiano sull’operazione e così beneficiando la già elevata reputazione del socio industriale di ulteriore credito sui mercati. Et voilà.

A ben vedere Progetto Italia somiglia assai a quanto in molte occasioni abbiamo osservato fare, con malcelata invidia, allo stato francese divenuto socio di proprie aziende reputate di interesse nazionale, da Psa a Stx; o agli Usa con Gm e Chrysler; e potrei continuare a lungo.

Dal 2015 lo Stato italiano ha investito in Mps circa 7 miliardi; attraverso il salvataggio di Veneto Banca e Banca Popolare di Vicenza, ha venduto per la formidabile somma di 1 euro ad Intesa Sanpaolo tutti gli attivi delle due banche venete tenendo a carico dei contribuenti circa 18 mld di poste ammalorate; il denaro pubblico è stato pure necessario per i crac di Banca Etruria, Carichieti, CariFerrara, BancaMarche. E se lo schema Progetto Italia fosse stato applicato ai casi delle banche qui elencate?

A Taranto c'è la più grande acciaieria d’Europa, l’Ilva. Da un lato un madornale errore del governo Conte con il così detto scudo penale, dall’altro il comportamento proditorio di ArcelorMittal, ed ecco servito l’ennesimo pasticcio che ha oggi tante chance di risoluzione quante rimettere il dentrificio nel tubetto, più o meno come Mps. E se applicassimo Progetto Italia all’Ilva?

Secondo diverse stime dal 1974 ad oggi ai contribuenti italiani Alitalia è costata circa 9 miliardi, senza mai aver risolto alcunché ed anzi trovandoci nel momento in cui scrivo nel pieno dell’ennesima crisi. Progetto Italia?

Non proseguo oltre, ma sarei per escludere che tra la gente normale di questo pianeta vi sia qualcuno disposto a definire “ben gestita” una qualunque delle crisi aziendali prima elencate che infatti miseramente ricordano la peggiore Iri. Progetto Italia-WeBuild al contrario ha offerto un esempio di eccezionale interesse strategico, da emulare ed implementare: investire ma non gestire, scegliere con zelo i migliori soci industriali, sorvegliarli, ma mai gestire direttamente le imprese; in una parola, Mediobanca. WeBuild aveva già in Salini-Impregilo il socio industriale e ad esso si è finanziariamente accostata Cdp dando luogo ad una delle più ben riuscite operazioni imprenditoriali italiane degli ultimi tempi.

Questo modello va allargato: Cdp in Ilva avvicina un operatore siderurgico con cui investire insieme nell’impresa ed al quale lasciare la gestione; così con Mps, con Alitalia, in decine di altri casi non meno urgenti, Aspi su tutti; Cdp partecipa ma non gestisce, è investitore di lungo termine in qualità di braccio finanziario dello Stato italiano che agevola e rende credibile al massimo livello ogni dossier, preservando gli interessi nazionali. Non dimentichiamolo mai: nel 2020 sono quadruplicati i tentativi di scalate ostili a carico di aziende tenute alla previa valutazione sull’esercizio della golden power da parte dello Stato, imprese cioè strategiche per l'Italia; 341 operazioni segnalate a Palazzo Chigi rispetto alle 83 del 2019. Dove troviamo mezzi propri in misura tanto vasta da permettere di procedere nei termini qui affacciati senza – ben inteso – impegnare il risparmio postale su cui è innanzitutto poggiata Cdp?

Cassa Depositi e Prestiti al 2019 vanta 448 mld di attivo, 3,4 mld utile, 36 mld di patrimonio netto; non è quotata in borsa ed è direttamente posseduta per 82,77% dal Ministero delle Finanze e per il 15,93% da una sessantina di fondazioni bancarie. Il Mef, limitandoci alle maggiori società quotate a controllo pubblico, detiene poi il 4,34% di Eni, il 23,6% di Enel, il 29,26% di Poste Italiane, il 68,25% di Mps, il 30,2% di Leonardo (ex Finmeccanica), il 53,58% di Enav: ai corsi azionari odierni, il controvalore di queste sole partecipazioni è pari a circa 28 miliardi. E quindi Cdp: 1°: acquista dal Mef le suddette partecipazioni a valore di mercato. 2°: delibera un aumento di capitale a pagamento da 33 miliardi nel quale il Mef reinveste interamente l’importo poco prima incassato dalla vendita delle sei partecipazioni anzidette; la differenza, circa 5 miliardi, verrà pro-quota sottoscritta – al netto di qualche possibile defezione – dalle fondazioni bancarie azioniste di minoranza; all’esito di quanto sopra, Cdp avrà un patrimonio netto a 70 mld, un attivo di 481 mld, un monte dividendi infine immediatamente accresciuto di circa 1,35 mld per effetto delle partecipazioni acquisite dal Mef. Fino a qui sono saltati fuori 33 miliardi. 3°: Cdp viene quotata in borsa, naturalmente a Milano, attraverso una Ops – sia ben chiaro: Ops e non Opv – ovvero una Offerta Pubblica di Sottoscrizione cioè un aumento di capitale riservato al mercato, agli investitori tutti, pari al 30% del capitale sociale: le somme raccolte restano in Cdp; a valle pertanto lo Stato conserverà la maggioranza assoluta, il 52,77%; dati i numeri in argomento e il profilo dell’offerente, pur applicando il consueto “sconto holding 20%” per via della natura aziendale, è impossibile ipotizzare un enterprise value inferiore a 100 miliardi vale a dire il titolo a maggior capitalizzazione sul nostro listino; dimenticavo: saltano fuori quindi altri 30 miliardi. 4°: Cdp a questo punto ha in cassa nuove munizioni, mezzi propri, per 63 miliardi; atteso lo schema partecipativo di Progetto Italia prima illustrato e cioè la società dello Stato tra il 15 e il 40% del capitale delle aziende target, ogni investimento di Cdp trascinerebbe con se finanza dei partner privati da 2 a 4 volte la quota pubblica, e così pressappoco i 200 miliardi che stavamo cercando.

Una simile operazione full equity, certo senza precedenti sia per dimensioni finanziarie che per vocazione industriale, determinerebbe effetti reputazionali sorprendenti, politici oltre che di mercato, probabilmente sino a toccare il rating sovrano; né appare di alcuna difficoltà su una Ipo di questo standing raccogliere 30 miliardi di nuovo capitale mentre l’Abi segnala giacenze di conto corrente di famiglie e imprese per 1700 mld ovvero oltre 50 volte la somma che ci occorre; e ciò prima di pensare ai Fondi di investimento – non solo italiani – che pure non mancherebbero all’appello.

Il nostro immediato futuro può quindi vederci protagonisti di investimenti, qui descritti e immaginati tra fondi europei e soldi degli italiani, per 400 miliardi di euro vale a dire una grande rinascita nazionale. Se coscienti d’avere davanti anni impegnativi quanto prima mai dal dopoguerra, avremo l’approccio giusto per avere successo, per riconquistare credibilità e primazia in Europa, per sanificare una volta per tutte economia, burocrazia, occupazione e benessere sociale; con tale spirito lascio questa proposta, che mi piace chiamare “Progetto Italia”, a disposizione di chi potrà valorizzarla.

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