Ddl Zan, tra ideologia e censura

Il Ddl Zan, come è evidente ai più, è diventato una sorta di clava ideologica che la sinistra vuole usare per colpire il centrodestra, al di là dei contenuti della proposta di legge che quasi diventano secondari. L’onorevole Zan in un video apparso in tv affermava che attualmente la discriminazione razziale era punita, mentre quella basata su orientamento sensuale o di genere non veniva punita e che la sua legge mira a sanare questa incongruenza. Un ragionamento del genere apparentemente corretto ha un grave vulnus, che è quello di pensare delle leggi non basate su principi generali e di semplice comprensione e applicazione, ma creare leggi complesse e tortuose che cercano di regolare ogni aspetto della realtà che inevitabilmente falliscono nell’intento. Perché invece che stare a discutere su definizioni di difficile comprensione, non stabilire un principio generale che le discriminazioni vanno condannate e poi sia la giurisprudenza a declinare i casi specifici? Ci avvicineremmo ad un sistema anglosassone, ma non ci sarebbe bisogno di modificare sempre le leggi.

Che il Ddl Zan sia diventato una bandiera i cui contenuti risultino secondari è testimoniato dalle prese di posizione di molti esponenti del mondo dello spettacolo, che è ormai un ambiente in cui trionfa il conformismo e la sciatteria. Spesso personaggi noti, bravi nel loro campo non hanno una cultura molto elevata in altri campi, tale per cui la loro opinione è qualitativamente paragonabile a quella dell’uomo della strada. Purtroppo la notorietà fa apparire le loro opinioni più importanti di quanto siano in realtà.

Della proposta, l’articolo più controverso è il quattro perché pone serie limitazioni alla libertà di espressione. Il rischio è che la magistratura diventi arbitro di ciò che si può dire e di ciò che non si può dire, con il serio rischio di tornare alla censura. Sarebbe sufficiente che qualcuno faccia una denuncia anche solo per antipatia personale per finire nei guai. Per quanto siano da condannare i discorsi che incitano all’odio e alla violenza, sono anche da censurare? E quale sarebbe il discrimine fra espressione artistica e incitamento alla violenza? Non sono questioni di poco conto e facilmente risolvibili. Oltre al rischio di censura, sfugge ai più un altro rischio più sottile, ma ugualmente pericoloso: la deresponsabilizzazione dell’individuo. C’è il rischio che chi commette un reato possa giustificare la sua azione perché istigato da un articolo, un libro o un semplice discorso che anche vagamente possa in qualche modo essere considerato di incitamento all’odio o alla violenza. Per spiegare meglio facciamo un esempio semplice. Consideriamo il Mein Kampf di Hitler in cui il sanguinario dittatore esprime le sue idee. Se lo legge un simpatizzante delle idee nazionalsocialiste lo considererà una sorta di Bibbia, mentre la gran parte delle persone lo troverà dal contenuto ripugnante e per giunta scritto male. Il libro obiettivamente contiene idee razziste e di odio, ma perché non ha nessuna influenza sulla gran parte degli individui? Una legge che punisca le opinioni che non piacciono, perché alla fine è questo che rischia di succedere, comporta una deresponsabilizzazione degli individui che potranno sempre invocare come giustificazione una qualche suggestione esterna.

Già oggi due professori universitari sono finiti nei guai per dei messaggi sui social network, per giunta piuttosto innocui e di nessun contenuto razzista o di odio e vorremmo aggiungere ulteriori limitazioni alla libertà di espressione? In Italia esiste ancora il reato di vilipendio delle istituzioni, residuo legislativo medievale quando il re era di origine divina e pertanto ogni oltraggio era un atto di blasfemia. Non diciamo niente di nuovo affermando che nella costituzione italiana la figura del presidente della Repubblica è mutuata da quella del re e spesso il reato di vilipendio è invocato proprio per le critiche o offese al presidente della Repubblica.

Sarebbe auspicabile che la proposta di legge venga rivista e che venga conservata la libertà di espressione, già a rischio in tempi di conformismo politicamente corretto.

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