SACRO & PROFANO

Viola promosso a Roma esce dal toto-vescovo, Olivero a rapporto in Vaticano

Il prelato francescano lascia Tortona per un importante incarico nella Curia romana. L'attuale titolare della diocesi di Pinerolo chiamato a rendere conto di alcune scelte liturgiche "ecumeniche". Nuovi nomi per la successione di Nosiglia a Torino

Lunedì 24 maggio scorso Papa Francesco ha aperto i lavori dell’assemblea plenaria dei vescovi italiani riuniti a Roma, causa pandemia, nell’inconsueta cornice dell’hotel Ergife. Dopo averli garbatamente rimproverati per essere tutti presenti con la veste talare filettata (quasi, secondo lui, dato il luogo, come a un concorso di bellezza) ha continuato quella che alla fine è sembrata una vera e propria lavata di capo, non nuova peraltro nei confronti dell’episcopato italiano, il più numeroso ed elefantiaco, in quanto al numero delle diocesi, dell’orbe cattolico.

Il Pontefice ha esordito richiamando alla vigilanza e alla severità nei confronti dei seminaristi definiti  «rigidi» i quali, secondo gli esegeti del linguaggio papale, sarebbero quei giovani ferventi e devoti troppo adusi alle pratiche di pietà, come l’adorazione, il rosario ecc. Ha annunciato poi che invierà dei giudici rotali per controllare se è stata avviata la riforma dei tribunali ecclesiastici che dovrebbero essere costituiti in ogni diocesi al fine di dare attuazione alle aperture sullo scioglimento dei matrimoni previste dall’enciclica Amoris Laetitia. Uno di questi potrebbe essere, per il Piemonte, il vescovo di Mondovì, il lombardo Egidio Miragoli. È seguito poi il rinnovato invito a dedicarsi al più presto ai sinodi locali che dovranno prendere il via il 17 ottobre in ogni diocesi per convergere poi a livello nazionale e, infine, a quello universale a Roma nel 2023. Il tema sarà la sinodalità e cioè la trasformazione della Chiesa da verticale a orizzontale. A esso parteciperanno non solo i vescovi ma anche i preti, i laici e ogni parrocchia e comunità. Questa prospettiva,  vede molti presuli non troppo entusiasti, consapevoli del rischio di una “parlamentarizzazione” della Chiesa e con il timore – assai  fondato – che tali eventi possano scatenare la logorrea degli arzilli sessantottini – ormai gli unici assidui frequentatori delle chiese – sempre pronti a invocare quelle riforme che sono poi sempre le stesse: sacerdozio femminile, clero sposato, benedizione alle coppie gay ecc. Dopo il congedo dei giornalisti, Francesco ha poi annunciato che la liberalizzazione della messa in latino, voluta da Benedetto XVI e che pare stia dilagando fra i giovani preti, probabilmente stanchi della sciatteria di certe celebrazioni moderne, subirà delle restrizioni e sarà sottoposta ad un rigido controllo.

Intanto giovedì la sala stampa della Santa Sede ha comunicato che il vescovo di Tortona mons. Vittorio Viola, come lo Spiffero aveva previsto, è stato nominato segretario della Congregazioni per il culto divino e la disciplina dei sacramenti. Si sono così spente le speranze del clero torinese “boariniano” che vedeva di buon grado monsignor Viola diventare nuovo arcivescovo di Torino. Sulla nomina del quale impazza il “toto vescovo”, segno che forse essa non è così alle viste e si dovrà attendere l’autunno o, addirittura, la fine dell’anno.

Alla lista si è aggiunto Carlo Maria Redaelli, attualmente arcivescovo di Gorizia, presidente della Caritas e presidente della commissione della Cei per la carità e la salute, voluto a questi due incarichi personalmente dal Papa. Redaelli, classe 1956, milanese, canonista, già ausiliare del cardinale Carlo Maria Martini e suo fervente seguace, conosce il Piemonte in quanto, anni addietro, dotato di competenze e di autorità, era stato inviato come commissario nella diocesi di Acqui per mettere a posto i suoi disastrati conti, prima che arrivasse nella città termale come vescovo un altro milanese – sicuramente da lui proposto – il già economo diocesano e segretario dello stesso cardinale Martini monsignor Luigi Testore. Con la sua nomina diventavano così ben tre (con Giulio Brambilla vescovo di Novara) i vescovi di origine lombarda in Piemonte.

Un altro nome sarebbe quello di monsignor Giacomo Morandi, modenese, classe 1965, teologo, dal 2017 arcivescovo segretario della Congregazione per la dottrina della fede. La sua venuta a Torino si dovrebbe al fatto che il papa, ultimamente, non sarebbe più in sintonia con i suoi orientamenti non sufficientemente “progressisti”. Infine, continua a circolare, ma sempre più flebilmente, il nome di don Maurizio Patriciello, il prete della “Terra dei fuochi” che da anni si batte per la salute dei cittadini e contro l’inquinamento e il degrado ambientale e morale dell’entroterra campano. Classe 1955, vocazione adulta – prima faceva l’infermiere – diventa prete a trent’anni e poi parroco di Caivano in diocesi di Aversa dove si fa conoscere per le sue battaglie contro la combustione fraudolenta dei rifiuti industriali, entrando così  nel mirino della camorra. Grande ammiratore dell’enciclica Laudato sì la nomina di un meridionale, fuori da ogni logica curiale, sarebbe una novità per Torino.

Ma la vera notizia è un'altra e riguarda quello che rimane il più accreditato candidato del clero progressista e “pellegriniano”. Pare infatti che monsignor Derio Olivero, vescovo di Pinerolo, sia stato formalmente convocato a Roma dal cardinale Luis Francisco Ladaria, prefetto della Congregazione per la dottrina della fede per giustificarsi del fatto che, durante la messa dell’Epifania del 2020, invitò l’assemblea a non proclamare e professare il Credo al fine di non urtare la suscettibilità dei non credenti. Ad alcuni fedeli increduli, il buon vescovo Derio rispose che rispettava già il messale tutto l’anno «ma in occasione di questa Messa c’erano in chiesa altre confessioni e ho pensato che i cattolici potessero proclamare in silenzio il Credo e chi invece, come i Valdesi e gli Ortodossi potessero proclamare qualcosa in cui credere». Sicuramente sarà questo il tenore delle giustificazioni al cardinale prefetto.

In altri tempi l’episodio sarebbe bastato per la comminazione di sanzioni canoniche o addirittura per la rimozione, certamente sarebbe sfumata ogni promozione, ma oggi non è detto che l’ecumenismo un po' spinto del vescovo di Pinerolo non lo agevoli nella tanto desiderata traslazione a Torino. Infatti, sempre giovedì scorso, è stata data notizia che monsignor Olivero è stato eletto dall’assemblea dei vescovi presidente della commissione per l’ecumenismo, entrando così a far parte della commissione permanente della Cei, segno inequivocabile che la dottrina – e quindi la fede – è ormai un aspetto secondario e interpretabile del ministero di un vescovo cattolico.

Particolare curioso. L’ultrasettantacinquenne prete torinese dei migranti, don Fredo Olivero, rettore della chiesa di San Rocco e icona del cattolicesimo progressista, nonché anche lui originario di Fossano e parente di monsignor Derio, fu protagonista di un analogo episodio. Nel 2017, durante la messa di mezzanotte di Natale, sostituì il Credo con il canto Dolce sentire candidamente affermando: «Sapete perché non dico il Credo? Perché non ci credo. Se qualcuno lo capisce…, ma io dopo tanti anni ho capito che era una cosa che non capivo e che non potevo accettare. Cantiamo qualche cos’altro che dica le cose essenziali della fede». Dopo il clamore mediatico seguito al grave abuso liturgico, don Fredo spiegò allo Spiffero come l’omissione della professione di fede fosse «una questione pastorale e non di contenuti». Decisamente, il Credo cattolico formulato a Nicea nel 325, non è congeniale agli ecclesiastici della famiglia Olivero.

A proposito di Fossano, è di questi giorni la notizia che la minuscola diocesi sarà – naturalmente attraverso un «cammino sinodale» - definitivamente unita a Cuneo dopo che, dal lontano 1989, lo era in persona episcopi. Se questi sono i tempi della chiesa italiana per la riduzione delle pletoriche circoscrizioni ecclesiastiche, si può ben comprendere il nervosismo di Papa Francesco quando si trova davanti l’affollato parterre vescovile dell’hotel Ergife.

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