Primarie al capolinea

Le primarie del Pd per la scelta del candidato a Sindaco di Torino hanno sfornato numeri su cui è persin inutile ogni commento. I gazebo sostanzialmente vuoti parlano da soli. Certo, è umanamente comprensibile, e anche giusto, che vari dirigenti del partito - soprattutto a livello nazionale - salutano questo risultato come una “grande prova di democrazia” e come l’elemento decisivo per “vincere le prossime elezioni amministrative” e, soprattutto, per respingere la solita e ormai anche un po’ noiosa e ripetitiva “offensiva della destra” e via discorrendo. Ma, al di là della fisiologica e scontata propaganda, è del tutto evidente che il risultato emerso dai gazebo conferma almeno tre aspetti politici difficilmente contestabili, perché oggettivi e sotto gli occhi di chi vuol vedere in faccia la realtà. Innanzitutto lo strumento delle “primarie”. Certo, per il Pd continuano ad essere un dogma infallibile, un totem ideologico su cui nessuno può obiettare. Quando qualcuno, seppur timidamente e persin sottovoce, prova a metterle in discussione viene sostanzialmente zittito come un alfiere del vecchio, del passato, della partitocrazia più bieca e forse anche portatore di una logica riconducibile alla casta o al peggior apparato. Ma la realtà, come il caso di Torino ha platealmente confermato, è tutta un’altra.

Le primarie, nate come un grande strumento di popolo e di partecipazione democratica, si sono ridotte progressivamente ed irreversibilmente ad una contesa interna al partito e ai rispettivi gruppi di potere di riferimento. Cioè ad una pratica ormai estranea alla stragrande maggioranza della pubblica opinione, anche quando si vota per scegliere un candidato a Sindaco di una grande città come Torino. In secondo luogo si deve prendere atto, piaccia o non piaccia, che ciò che resta dei partiti si ri-legittima anche e soprattutto se riesce al suo interno a scegliere e a selezionare la propria classe dirigente. Un compito che storicamente ha contraddistinto i grandi partiti popolari del passato - quelli che erano organizzati, però, e che avevano, al contempo, anche un progetto politico definito - e che individuava proprio nella selezione delle classi dirigenti uno dei punti centrali e costitutivi della propria ragion d’essere. In ultimo, quando uno strumento burocratico e protocollare come le primarie fallisce, o vanno fuori moda, si corre il serio rischio anche di indebolire l’intero progetto politico di un partito o di una coalizione. E il caso del risultato concreto e tangibile delle primarie di Torino non rappresentano certamente un elemento incoraggiante per le elezioni del prossimo ottobre. Cioè quelle che contano realmente. Perché le ripercussioni politiche concrete dopo questo clamoroso flop partecipativo inesorabilmente ricadranno sull’andamento della campagna elettorale.

Al di là della buona volontà e dell’impegno concreto e fattivo dei militanti e dei futuri candidati nelle varie liste. Ecco perché, forse, è giunto anche il momento - partendo proprio da questo insuccesso - per ripensare profondamente il modello della selezione, e quindi della decisione, della classe dirigente. Perché le mode vanno e vengono. Ma la sostanza rimane quella che ci presenta crudamente la realtà. E il risultato concreto delle primarie di Torino meritano, appunto, una approfondita riflessione per agire in vista dei prossimi appuntamenti elettorali.

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