Uomini e donne edizione ventennio

La Politica assomiglia troppo spesso a un rito oramai stanco, a cui non ha portato giovamento nessuno dei tanti tentativi di rianimazione. L’attuale stato di debolezza del sistema partitico rischia di compromettere anche i valori custoditi dalla Carta costituzionale. Un tangibile pericolo di estinzione per l’insieme di diritti/doveri elevati a legge fondamentale all’indomani della caduta del regime nazifascista.

La guerra e l’occupazione militare sono eventi drammatici che si abbattono su tutti, soldati e civili, trasformando ogni giorno in un insieme di attimi strappati fortunosamente alla morte. Chissà quali furono i pensieri dell’operaio Valentino (classe 1910) dipendente della Nobel di Avigliana quando una sera, a fine turno, incappò in uno dei tanti plotoni tedeschi alle prese con un rastrellamento in grande stile. Nei giorni precedenti Valentino aveva scioperato insieme ai suoi compagni in fabbrica, e tutto intorno a lui sentiva il crepitio delle armi dei partigiani che tentavano di occupare lo stabilimento bellico, strappandolo al controllo delle truppe hitleriane. 

L’operaio non temeva il rumore prodotto dalle esplosioni delle mitragliatrici automatiche poiché qualche anno prima era stato assegnato al Forte Chaberton (sito in cima all’omonimo monte) dove i cannoni tuonavano ogni giorno. L’uomo trentaquattrenne venne catturato il 26 giugno 1944 insieme ad altre 299 persone, tra cui Maurillio Borrello, e portato nel municipio di Avigliana. Il 29 giugno i cittadini e i lavoratori rastrellati furono trasferiti alla stazione ferroviaria per essere infine caricati tutti su un convoglio merce stipato all’inverosimile. Il viaggio fu lungo e si svolse in condizione disumane. Senza bagni, i deportati dovettero usare un angolo del vagone per le loro necessità organiche, e fu anche necessario centellinare il poco cibo a disposizione nonché l'acqua, contenuta in un solo secchio.

Dopo un interminabile tragitto dalla meta sconosciuta (con brevi soste a Torino, Udine, Villaco e Linz) raggiunsero la città di Gaggenau, nella Germania centro-occidentale, dove alcuni furono internati e altri smistati a Mauthausen, Birkenau e Dachau. Valentino fu così fortunato da essere trasferito da un campo all’altro, da lavorare in tutti quei lager lottando ogni giorno contro il freddo, la fame e le malattie. Vestito con una casacca e un paio di pantaloni di cotone, ai piedi zoccoli aperti di legno, al ritorno dal lavoro quotidiano doveva assistere alla conta dei morti, subendo le bastonate riservate ai vivi.

La tempra fisica permise all’operaio della Nobel di essere tra i pochi sopravvissuti che andarono incontro alle truppe Alleate. Il ritorno a casa, ad Almese, fu lungo e difficile. Sul finire dell’anno 1946, moglie e figlio (che aveva compiuto sei anni un mese prima della sparizione di Valentino) videro rientrare a casa quel che rimaneva di un uomo, di un montanaro, ridotto al peso di 35 kg. Per almeno un anno non disse neppure una parola, neanche un saluto alla vista dei suoi cari ritornato dalla Germania, ma gettò immediatamente via ogni cosa che potesse ricordargli quei campi: le grida e le sofferenze dei suoi compagni, dei russi e degli ebrei rinchiusi nei baraccamenti attigui. L’ex internato aveva scelto di cancellare il passato (cosa che non gli riuscì mai) rinunciando a qualsiasi forma di indennizzo statale. Non aveva tempo per riposare, malgrado l’aspetto scheletrico del suo fisico, così appena recuperate le forze tornò a lavorare.

Durante la forzosa assenza di Valentino, dato per deceduto dalla famiglia, toccò al piccolo pargolo e alla moglie Emma “tirare avanti la baracca”. La donna all’arrivo in valle delle truppe tedesche, che abitualmente usavano il pozzo d’acqua del suo cortile, esponeva un lungo lenzuolo bianco sul balcone di casa: il segnale adottato per allarmare chi era a combattere in montagna.

Nell’estate del 1940 una donna dal nome Giuseppina partorì la figlia in una cascina dell’astigiano, dove era sfollata da Torino per affidarsi ai suoi fratelli. Il marito, in previsione dell’imminente conflitto contro i francesi, era stato richiamato da poco per essere destinato al Forte Chaberton (3.130 mt di altitudine). Indossata la divisa da sottoufficiale infermiere venne coinvolto suo malgrado in una strana guerra iniziata con la fortezza italiana distrutta dai mortai di Briançon, e terminata con il regime mussoliniano vittorioso pur avendo perso disastrosamente sul campo di battaglia.

Il compito dell’infermiere militare nella fortezza tra le nuvole, posizionata a ridosso del confine nemico, era quello di dare assistenza ai soldati colpiti dal fuoco francese. L’uomo si chiamava Ferdinando, classe 1915, e subì una brutta ferita durante il soccorso portato ai suoi compagni d’armi: guadagnò il congedo grazie a una scheggia di granata conficcata nel petto. La famiglia si ricongiunse così in via Bava a Torino.

Ferdinando, detto Nando, fuggì dai bombardamenti che colpirono l’ex capitale sabauda nel luglio del ’43, sfollando nuovamente con la sua bimba di tre anni e la consorte, ma questa volta la meta erano i suoi parenti che vivevano a Mercenasco. Trovò quindi lavoro alla Olivetti di Ivrea e ogni sera per rientrare a casa percorreva una ventina di chilometri in bici. Il tratto di strada che lo divideva da Giuseppina era spesso interrotto dai Partigiani, i quali sapevano di poter contare sulla sua esperienza da infermiere per medicare i propri feriti. Lui era sempre a loro disposizione, come lo era per chiunque bussasse alla sua porta perché non aveva soldi per pagare un medico: da tempo aveva scelto da che parte stare. Portava sempre con sé gli attrezzi professionali e a volte, finito di fare bendaggi dopo estrazioni di schegge o di proiettili, aveva giusto il tempo di pedalare fino a casa come un forsennato per un saluto ai suoi che era già ora di tornare al lavoro.

Alla resa dei tedeschi Ferdinando abitava da poco tempo a Torino, in via Tripoli, e intorno al 20 aprile del 1945 dovette faticare non poco per convincere un gruppetto di soldati tedeschi a non far del male a nessuno, e persuaderli a depositare le loro “Luger” nel mucchio di fucili nazisti che si stava formando all’interno del cortile di casa sua.

La storia di due famiglie che sono confluite in una sola: quella dei miei genitori. Esistenze che hanno superato fatiche titaniche, sfacchinate e sacrifici tanto grandi che oggi sono difficili anche solo da immaginare: provo un sottile senso di imbarazzo quando paragono la mia vita alla loro. Donne e uomini che andavano sempre e comunque avanti, alternando prove tremende a momenti di convivialità di quartiere, di gioia e solidarietà. Persone che sapevano molto bene cosa fosse stata la dittatura fascista, e quanta sofferenza aveva causato a tanti altri come loro: consapevoli di quanto fosse fragile la Libertà.

Oggi perdiamo continuamente pezzi di Libertà tra privatizzazioni, pandemie e ragioni di mercato. Non basta consolarsi con un reality che ci invita a essere “Liberi di sognare” per poterci definire davvero cittadini liberi e dormire sonni tranquilli, ma occorre forse qualche sacrificio in più e una difficile presa di coscienza collettiva.

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