Seggi ai non votanti

Da qualche mese i muri di Torino sono tappezzati da manifesti con cui si invitano i cittadini ad aver fiducia in un simbolo, oppure li si esorta a dare il consenso a un volto sorridente: il segnale che la corsa verso la Sala Rossa ha avuto inizio.

La politica esce in strada prestando finalmente attenzione ai problemi delle persone. I candidati si recano in massa ai mercati rionali dove intervistano i consumatori sul prezzo delle mele e delle ciliegie, dimostrandosi così pronti ad accogliere qualsiasi istanza proveniente da chi potrebbe trasformarsi in un voto a proprio favore.

Promesse, accuse rivolte agli avversari, ascolto di lamentele sono le armi a disposizione di chiunque voglia appropriarsi di ampi settori di popolazione. Gli aspiranti consiglieri (non tutti perché c’è chi ancora crede nella Politica) e buona parte dei partiti solitamente provano a recuperare in un mesetto quanto non fatto per interi anni. Coloro che si sono dimostrati perennemente distanti dalle persone riprendono vigore, rinnegando la pigrizia che li ha accompagnati per tutto il mandato amministrativo.

La caccia al voto trasforma gli scenari politici. L’opportunismo domina la scena quasi ovunque, offrendo uno spettacolo da grande artista del trasformismo: cambi d’abito continui in un vortice di applausi. Alla fine tutto si risolve in 40 giorni di campagna elettorale e i giochi delle segreterie di partito si consumano in una breve quanto intensa frenesia.

Alla chiusura dei seggi l’attesa mette a dura prova i candidati. All’arrivo dei risultati qualcuno festeggia dimostrando immensa gioia, mentre altri si abbattono cercando subito un capro espiatorio a cui addossare la responsabilità della bruciante sconfitta. Un solo elemento accomuna vinti e vincitori: l’assoluto disinteresse per il popolo degli astenuti, per coloro che stufi e disgustati hanno scelto di non scegliere.

Tempo addietro, un big della politica e del mondo imprenditoriale in una discussione con alcuni suoi sostenitori affermò: “Se la gente non vota va benissimo, l’importante è che coloro che votano decidano di votare me”. Poche parole che si rivelano adatte per fare un quadro efficace di come funziona la democrazia parlamentare. Una visione limitata tipica dei leader politici che negano con ottusità un dato fondamentale: chi esce trionfante dalle urne ha comunque le gambe di argilla. Presidenti e deputati esultano per aver raccolto il consenso della maggioranza di chi ha votato, ossia una parte della popolazione molto al di sotto del 50% degli aventi diritto al voto, ma non si fermano a riflettere che sono in realtà l’espressione di un’esigua minoranza.

Secondo alcuni politologi i problemi che affliggono le istituzioni elettive occidentale sono tanti, compreso quello dei grandi imperi economici padroni del Parlamento, ma basterebbe una legge per venire a capo dell’incoerenza più imbarazzante per un sistema definito democratico. Non potendo punire coloro che decidono di disertare i seggi elettorali, rimane la possibilità di penalizzare in qualche modo i partiti, i quali con il loro agire causano il fenomeno astensionista.

Paolo Flores d’Arcais nel 2012 affermava che l’Italia non è affatto governata da una democrazia rappresentativa, poiché la metà dei suoi cittadini dichiarava regolarmente di non votare più. Alla luce dei risultati sanciti dalle urne negli ultimi anni, nel nostro Paese tutte le liste messe insieme raccolgono in media il 65% dei voti, ma in Parlamento le stesse occupano il 100% dei seggi. Le liste minori inoltre restano escluse dai rami parlamentari a causa degli sbarramenti imposti della legge elettorale; ne consegue che il 100% delle Camere è dominio di un 60%, a volte 50%, del corpo elettorale.

Decine di milioni di cittadini non hanno quindi rappresentanza, sono di fatto espulsi dalla vita politica per volontà delle Istituzioni stesse. Alcuni giornalisti non mostrano incertezze quando affermano in TV che è sufficiente andare a votare per essere rappresentati, per cui peggio per chi non esercita i propri diritti. Redattori che purtroppo non considerano come molti elettori non si riconoscano in alcun forza partitica e che tanti altri vadano regolarmente a votare “turandosi il naso” scegliendo il raggruppamento che ritengono essere il “meno peggio”. 

D’Arcais concludeva il suo ragionamento con una riflessione e una proposta. Partendo dal dato reale di un sistema chiuso e autoreferenziale, teso alla sua conservazione, esisterebbe un’unica soluzione per trasformare l’attuale Democrazia elitaria in rappresentativa: i seggi andrebbero attribuiti sulla base di votanti effettivi, mentre i rimanenti dovrebbero essere assegnati ai cittadini non votanti tramite un grande sorteggio nazionale. Lo scrittore sintetizza così: “Se votano i due terzi degli aventi diritto allora solo i due terzi dei seggi devono essere distribuiti tra le liste in competizione, mentre il restante terzo viene coerentemente assegnato sorteggiando i parlamentari tra i cittadini che non si sono recati alle urne”.

Una provocazione dalle conseguenze imprevedibili, se venisse realizzata davvero. Basta pensare a cosa accadrebbe gettando all’improvviso decine di cittadini nel Parlamento: donne e uomini in preda a passioni imprevedibili, e senza alcuna esperienza alle spalle, messi di fronte alle leve del potere legislativo.

Sarebbe forse ancor più efficace lasciare i seggi vuoti, ossia metterli idealmente a disposizione del grande partito dei non votanti, ma considerandoli a ogni modo effettivi per il conteggio dei numeri legali e le maggioranze assolute: in caso di elevato astensionismo si verrebbe a determinare una condizione di paralisi delle Camere che metterebbe i dirigenti dei partiti con le spalle al muro.

L’unica soluzione rimane la presa di coscienza collettiva, la maturazione politica di cittadini che si trasformano da sudditi, in balia della disinformazione, a persone capaci di intendere e di volere: elettori preparati, bravi a difendersi dalle bugie così come da eletti disattenti, incapaci o, peggio, in malafede.

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