Responsabilità, tra Stato e cittadino

L’estate del 2021 non concede tregua, e la normalità appare ancora un miraggio lontano. I numeri dei contagi hanno ripreso a salire con oltre un mese di anticipo in confronto allo scorso anno, quando il virus si ritirava timidamente sino a metà agosto per poi ricomparire con forza a settembre.

L’incubo che ha letteralmente sconvolto le nostre vite non arretra neppure se facciamo finta di non vederlo. Infatti a nulla serve tifare per l’Italia agli europei di calcio, oppure organizzare viaggi seppur di difficile realizzazione: ignorare l’epidemia non significa sconfiggerla. I notiziari sono spietati nella conta quotidiana delle vittime da Covid, così come nel preannunciare l’arrivo di un autunno crudele, pronto a presentare il conto dei momenti di spensieratezza collettiva (perennemente sotto accusa). 

Nel luglio del 2020 la protagonista assoluta delle cronache estive era la “variante brasiliana”, oggi invece i riflettori sono tutti puntati su quella denominata “Delta” che dicono essere ancor più contagiosa. Il virus non è assolutamente generoso nell’elargire buone nuove, anzi si diverte a beffare virologi, esperti, funzionari ministeriali e giornalisti: ogni previsione viene regolarmente smentita dai fatti, spiazzando individui e mercati azionari.

Non è certo la prima volta che l’umanità si trova a combattere emergenze di tale natura. Intorno al 1830 il colera faceva spesso la sua comparsa nei territori francesi per poi approdare in quelli sabaudi. All’epoca la malattia era meno rapida nel diffondersi, grazie a minori spostamenti di persone da un luogo all’altro, ma nel giro di pochi mesi arrivava comunque anche a Torino, smentendo di norma medici e governo.

I documenti conservati negli archivi storici narrano che i soldati applicavano stoffe sul viso per proteggere le vie respiratorie, e di cordoni sanitari atti ad impedire la diffusione del colera. In Val Chisone, ad esempio, fu compito della guarnigione di stanza al Forte di Fenestrelle formare vere e proprie barriere di controllo per salvaguardare le comunità locali. A Torino si constatava che la patologia uccideva soprattutto nei dintorni del Vicolo del Moschino, cioè nelle zone dove si concentrava miseria e disagio.

Il Covid19 si nutre anche di povertà, ma soprattutto di malasanità, disinformazione e scarso rispetto verso gli altri. In alcuni Paesi ci si limita ad osservarne la proliferazione senza varare misure sanitarie di contenimento, in altri invece ci si affida al tracciamento dei contagi, quando riesce, e alla vaccinazione di massa oppure delle categorie più fragili. Ovunque però sono ritenute prioritarie le ragioni dell’economia su quelle umanitarie e lo shock sociale, derivato dagli effetti di questa epidemia, potrebbe provocare presto forti tensioni ovunque nel mondo. È importante evitare che i prossimi mesi siano segnati dalla protesta del “Tutti contro tutti”. Il periodo che stiamo faticosamente attraversando richiede senza dubbio uno sforzo di trasparenza, un approccio democratico nell’affrontare sia l’emergenza sanitaria, sia lo stato di enorme criticità in cui sta precipitando l’intero tessuto comunitario. Le strette imposte alla popolazione possono rivelarsi controproducenti, utili solamente a nutrire il fronte negazionista.

La campagna mediatica in atto ha contorni inquietanti per la totale assenza del diritto di replica riservato a chi nutre dubbi sulle scelte sanitarie per uscire dalla drammatica situazione. L’individuazione del nemico tra coloro che per varie ragioni non hanno piena fiducia in queste è profondamente errata, poiché assomiglia sempre più a una vera e propria caccia alle streghe. Allo stesso tempo sono preoccupanti i mea culpa del mondo giornalistico, il quale fa autocritica per aver diffuso notizie sugli effetti collaterali dell’iniezione di AstraZeneca rilevati su alcuni pazienti: una censura che ricorda tristemente la campagna militare americana in Iraq, da cui nulla filtrava se non informazioni inerenti le battaglie vinte.

Lo stile della comunicazione attuale sembra davvero frutto di uno stato marziale, immagine avvalorata dal fatto che un alto ufficiale si sta occupando della logistica vaccinale: modus operandi che certamente non rassicura i cittadini titubanti, ma al contrario crea crescente sfiducia nelle scelte governative.

Due sono le strade che un’istituzione democratica può prendere senza appellarsi a false ipocrisie. La prima è rendere palesemente obbligatoria la vaccinazione a tutti i cittadini, assumendosene la responsabilità politica e civile. L’altra invece è instaurare una dialettica trasparente e democratica con chiunque: una chiamata alla responsabilità anche da parte dello Stato, e non solo dei suoi amministrati, in cui abbia un ruolo importante la chiarezza delle scelte insieme al rilancio della ricerca Pubblica (magari ridando gambe a quella dello Spallazani, purtroppo interrotta). Prioritari continuano ad essere il tracciamento tempestivo dei contagi (mai davvero portato a buon fine in Italia) e la predisposizione di cure destinate a debellare l’infezione senza ricorrere all’ospedalizzazione (sulle quali si è puntato davvero poco).

Lo spettacolo deprimente in cui ancora una volta le persone si dividono lascia campo libero a chi per decenni ha regalato la Sanità ai privati (e continua a farlo). Una società che ora si spacca tra vaccinati e non vaccinati, questi ultimi per scelta o per necessità (categoria non classificabile insieme ai No Vax poiché disallineata rispetto a uno specifico prodotto farmaceutico), dando vita a un dibattito sterile, ma utile a chi vuole distrarre la massa dalle politiche regionali e nazionali favorevoli ai centri clinici privati.

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