Hanno preferito i talebani ai socialisti

Le immagini riprese all’aeroporto di Kabul in questi giorni riportano alla mente dei meno giovani quelle girate dopo la caduta di Saigon il 30 aprile 1975. All’epoca come oggi centinaia, migliaia di collaboratori degli americani salivano su qualsiasi veicolo aereo potesse portarli in salvo. Dall’ambasciata Usa si alzavano in volo elicotteri con il loro carico di persone stipate all’interno insieme ad altre appese a qualsiasi appiglio esterno e purtroppo destinate a schiantarsi a terra di lì a breve.

Scene di esodo di massa che corrispondo a due sconfitte militari e politiche della grande macchina da guerra americana. Erano circa 50 anni che i cittadini occidentali non assistevano a un ritiro delle truppe statunitensi a cui immediatamente sarebbe seguito l’abbandono, nelle mani dei nemici, di tutti i cittadini locali posti al loro servizio. È il crollo del mito dell’invincibilità di Washington e la conferma che la guerra è ancora in atto quando il nemico non si arrende, ma si mescola con la popolazione conservando il proprio armamentario.

Gli Stati Uniti da anni sono impantanati in campagne belliche che non trovano soluzione. Dal 2001, e ancora prima in Iraq, i vari inquilini della Casa Bianca hanno promesso agli elettori la cattura e la susseguente punizione dei leader dei cosiddetti “Paesi canaglia”: rei di esportare terrorismo sul suolo americano. Un alibi perfetto per poter occupare con il plauso internazionale territori ancora ricchi di oro nero, nonché di vitale importanza per impedire l’espansione dell’influenza politica cinese nel mondo arabo.

Errori tattici sul posto e strategie incentrate su alleanze assai instabili, come ad esempio con la Turchia, sul lungo periodo hanno invischiato le truppe Usa, e le loro alleate, in una sorta di perenne stallo da cui non è stato possibile muoversi, in alcuna direzione. In tale contesto le forze occidentali hanno lasciato prima il Kurdistan a disposizione della sete di vendetta di Ankara ed ora, dopo una lunga trattativa, hanno consegnato l’Afghanistan alla resa dei conti presentata dai Talebani.

Le cose, quindi, sono andate esattamente come dovevano andare nelle intenzioni della diplomazia di Biden e l’arrivo delle forze integraliste a Kabul era scontato. La politica, con il suo carico di cinismo, ha sempre molto chiaro chi e cosa deve essere sacrificato per raggiungere l’obiettivo prefissato. Qualche mese fa il contributo di sangue alla causa atlantica è stato richiesto alle donne e agli uomini di Kirkuk che hanno lottato coraggiosamente contro lo Stato islamico, oggi invece lo si pretende dai dipendenti locali civili delle ambasciate di Kabul e da chiunque si sia illuso di poter vivere la propria esistenza (vestendosi come gli pare e andando a scuola anche se donna).

La retorica americana ha illuso migliaia di afghani dicendo di esportare la democrazia a suon di bombe, quella stessa democrazia fatta di tanti statunitensi privi di assistenza sanitaria e fognature poiché indigenti. L’intervento militare a stelle e strisce è avvenuto dopo aver armato per anni i talebani al fine di resistere all’Armata Rossa giunta in terra afghana nel 1979, a sostegno del governo laico e socialista in carica (governo votato/sostenuto dal popolo e retto dal 1978 dal Partito Democratico Popolare dell’Afghanistan).

I socialisti afghani misero a frutto una serie di riforme (tra cui la fine del latifondo, la distribuzione della terra ai contadini e la statalizzazione dei servizi sociali) scatenando così l’ira delle autorità religiose locali sostenute dalla Cia. La vittoria dei talebani nel 1989 contro le truppe di Mosca ha coinciso con la fine di qualsiasi libertà per la popolazione e con l’arrivo di un’economia incentrata sull’esportazione dell’oppio. L’ingresso delle truppe Nato, dopo il massiccio attacco terroristico del 2001 ai danni degli Stati Uniti, ha permesso di allontanare gli integralisti religiosi dal potere e di concedere pari opportunità alle donne, ma senza mettere le basi per ricostruire la cultura sociale in auge sul finire degli anni ’70.

Giornaliste, donne in politica, professioniste e madri di famiglia sono oggi consapevoli di come sia giunta la parola “fine” alla loro libertà di esistere. Un ritorno alla schiavitù i cui responsabili, in queste ore, si scusano dai loro scranni in Occidente, negando pavidamente ogni colpa, mentre in quella terra di conquista per molte donne prende forma l’ennesimo nuovo calvario ad opera di mariti e figli.

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