SACRO & PROFANO

Messe deserte e liturgia sciatta, a partire dal Duomo di Torino

La cattedrale di San Giovanni in quanto sede del vescovo e del suo capitolo, nonché luogo dove è custodita la Sindone, dovrebbe costituire modello ed esempio per tutte le chiese. E infatti lo è, in negativo. Inizia il nostro viaggio nelle parrocchie piemontesi

Nel 2015 il papa emerito Benedetto XVI, prefando l’edizione russa del volume XI della sua Opera Omnia, edita dal Patriarcato di Mosca, ebbe a dire che la causa più profonda della crisi che attraversa oggi la Chiesa risiede nella decadenza della liturgia. Quanto questa affermazione corrisponda al vero, lo si può constatare dalle celebrazioni che si svolgono nel duomo di Torino, quella cattedrale metropolitana di San Giovanni Battista che, per essere la sede del vescovo e del suo capitolo, nonché luogo dove è custodita la Sindone e riposa il corpo del beato Piergiorgio  Frassati, dovrebbe costituire il modello e l’esempio per tutte le parrocchie di come i riti debbano splendere per  solennità e  bellezza e, come dice il Concilio, per  «nobile semplicità». Chi oggi in duomo partecipi alla Messa – termine da abbandonare in quanto sospetto di tradizionalismo a favore del più indicato «assemblea celebrante» – viene colto da un senso di malinconia, se non di angoscia. Al di là di quella feriale – spicciata su di un tavolino di fronte al magnifico altare del SS. Sacramento, oggi indicato come «riserva eucaristica» – l’ignaro fedele non può non notare come dominino la sciatteria rituale, la dozzinalità dei gesti e dei simboli e la banalità dei canti in cui sovrasta la chitarra. La partecipazione dei fedeli è sempre più rada e ormai quasi inesistente, persino nelle solennità dell’anno liturgico. Ultimamente poi, nelle ricorrenze in cui partecipano le autorità civili, si vedono soltanto più quelle, schierate in prima fila, nel deserto dei banchi vuoti. Ove un tempo pontificavano gli arcivescovi attorniati dal capitolo dei canonici regna la desolazione.

Nonostante la veste paonazza dell’onnipresente cerimoniere, monsignor Giacomo Maria Martinacci, viene da rimpiangere il camicione svolazzante della buonanima di don Mario Vaudagnotto, il suo gesticolare, le sue pause solenni e le reprimende ai fedeli che osavano intonare spontaneamente l’inno eucaristico del Tantum Ergo di fronte al SS.mo Sacramento esposto, canto sconsigliato dal progressismo liturgico. Eppure, il parroco della cattedrale, don Carlo Franco, classe 1958, ordinato nel 1987, è uno dei più autorevoli e rinomati liturgisti della diocesi, direttore dell’Istituto diocesano di musica – si fa per dire – sacra, nonché progressista della nouvelle vague, meglio conosciuto come il “desaparecido” per la difficoltà con la quale risulta spesso impossibile conferire con lui, anche da parte dei superiori. Le sue idee sono esposte, sotto lo pseudonimo di Paolo, nell’aureo libretto di Giuseppe Bonazzi, La fede dei preti. Un’indagine etnografica, testo pubblicato nel 2016 da Rosemberg e Sellier. Interessante, a conferma del soprannome affibbiatogli, l’incipit dell’incontro: «L’appuntamento è per le 10 ma alle 10.20 di lui non c’è traccia. Arriva sempre con mezz’ora di ritardo, mi dice nell’atrio l’addetta alla vendita di immagine e statuine. Se non fosse per una ventina di fedeli inginocchiati intorno alla statua della Madonna, direi che mi trovo in un non-luogo, come Marc Augé chiama gli edifici di puro transito». «Alle 11 può iniziare la conversazione, ma alle 12 deve scappare».

Per don Carlo, la cattedrale «è di fatto solo per i turisti», la carenza di sacerdoti non è un problema, «di preti, noi, siamo ancora troppi!», la diminuzione del clero non è un fatto negativo ma una bella occasione e poi sulla questione del sacerdozio femminile: «Perché gli uomini sì e le donne no?». Perciò, «grave e pesante» è stato il pronunciamento di Giovanni Paolo II contro le donne prete, ma si spera che Francesco riveda la decisione. La Chiesa poi è ancora troppo clericale e ciò che più lo inquieta «è la comparsa delle nuove leve di giovani sacerdoti conservatori che spingono non a dialogare con il mondo ma a riportarlo al passato» perciò egli, «insieme al direttore dell’Ufficio liturgico svolge un discreto controllo di tutte le attività cerimoniali che si svolgono nelle varie chiese», una specie, insomma di spionaggio liturgico. Da quando dirige l’istituto diocesano di musica sacra esso ha esteso il campo degli insegnamenti: «Abbiamo aggiunto l’arte floreale, addobbare con i fiori, dipingere un cero pasquale, fare il cerimoniere, tutto ciò che riguarda la regia celebrativa. Cerchiamo di far comprendere la liturgia, che è stata congelata per quattro secoli e riscoperta dal concilio tornando alle origini, senza orpelli, in un’ottica antropologica e simbolica». Sulla questione dei Messali, il parroco, da perfetto teorico della rottura, sostiene che il latino è solo un pretesto: «La questione non è solo liturgica, è ecclesiologica perché dietro a un Messale ci sta una Chiesa. La loro – dei tradizionalisti – è una Chiesa clericale, la nostra è di partecipazione e di comunione». Per la verità, osservando la partecipazione in duomo, non si direbbe, ma non preoccupiamoci, lo stesso don Carlo dice infatti che «occorrono settantacinque anni – chissà perché non settanta o ottanta? – prima che le indicazioni di un concilio siano comprese!». Coraggio allora, per arrivare al 2040 mancano soltanto diciannove anni.   

Circola su di lui una leggenda metropolitana, forse non del tutto inverosimile. Appena nominato parroco fu chiamato da una associazione che cura l’attiguo Palazzo reale a celebrare, come era in uso tutti gli anni, nella piccola cappella regia disegnata da Juvarra. Accortosi che nell’angusto presbiterio non vi era il consueto tavolino – che anche molti preti dicono voluto dal Concilio (dove?) – piuttosto che celebrare sull’antico altare rivolto ad Dominum, si dispose a farlo sulla balaustra o, dicono alcuni, sul leggio. A tale proposito, restaurata la cappella del Guarini a vent’anni dall’incendio che la distrusse, l’arcivescovo Cesare Nosiglia ha promesso che nominerà un cappellano come vi era un tempo e che sull’altare barocco del Bertola si tornerà a celebrare. Vedremo se si avrà il coraggio di sistemare su tanto splendore il solito squallido tavolino. Noi diciamo di sì.

Circa il capitolo metropolitano, che un tempo, oltre all’Ufficio divino, faceva corona al vescovo e lo assisteva nelle funzioni, esso è diventato del tutto residuale e oggetto di puro sarcasmo. La nomina a canonico, che veniva conferita ai sacerdoti più meritevoli e di prestigio, non è più ambita da nessuno e sbeffeggiata nel suo ruolo persino da chi ne fa parte. Indossare l’abito corale con la mozzetta violacea viene ritenuta una carnevalata e sono note in proposito le battute ironiche di un ex vescovo ausiliare che, quando doveva vestire l’abito corale, faceva sapere che andava «in sala trucco». I risultati di tale disfacimento, comunque, si vedono tutti e, per chi non abbia la mente e gli occhi obnubilati dall’ideologia, sono desolanti. Non pochi si chiedono se il nuovo vescovo, che il Papa indica come «moderatore, promotore e custode della vita liturgica della Chiesa», vorrà porre rimedio alla situazione oppure assisterà inerte all’agonia della sua cattedrale.

Intanto però ai convegni estivi sulla liturgia i nostri intellettuali torinesi hanno dispensato dottissime lezioni, mettendosi in luce come le avanguardie del rinnovamento e cogliendo meritati successi. Alla 71ma settimana liturgica svoltasi a Cremona dal 23 al 26 agosto, don Paolo Tomatis e Morena Baldacci hanno svolto le relazioni centrali. Si sono poi trasferiti ambedue a Gazzada (Va) dove, dal 30 agosto al 2 settembre, ha avuto luogo l’annuale convegno dell’Associazione dei professori di liturgia di cui Tomatis è presidente. Ad essi si è aggiunto don Roberto Repole, direttore della facoltà teologica, che ha trattato della «sacramentalità dell’assemblea». Torino possiede dunque delle vere menti nel campo della liturgia e alcuni si augurano che almeno un raggio del loro sapere venga trasmesso alle sempre più esauste assemblee della diocesi connotate, come ha rilevato Baldacci, da tristezza celebrativa, autoreferenzialità e da laici che si sentono padroni sull’altare e litigano fra di loro mentre le comunità si spengono lentamente. Per ovviare a tale perfetta descrizione della realtà, la soluzione – incredibile! – è quella di non diminuire la creatività e far diventare le nostre assemblee il «luogo dell’artigianato», valorizzando la bellezza del nuovo messale che, come è noto, moltissimi preti criticano apertamente per la sua inutilità e bruttezza. Le prime relazioni del convegno si ponevano la domanda su «dove e come» siano le assemblee liturgiche a 50 anni dal Messale di Paolo VI. Una delle risposte potrebbe essere quella che, a forza di creatività dopo mezzo secolo di riforma, esse stiano evaporando in una ondata di scipitezza e di banalizzazione.

Il Papa ha nominato monsignor Guido Marini vescovo di Tortona, rendendo così vacante il ruolo di maestro delle cerimonie pontificie. Quasi tutti hanno visto in tale provvista la messa in atto da Bergoglio, per una volta, della tipica prassi del promoveatur ut amoveatur, in quanto voci romane riferiscono che l’ufficio di monsignor Marini, considerato «tradizionalizzante», dovrebbe essere smantellato e assorbito dalla Congregazione del Culto divino al fine di «ammodernare» le liturgie papali e ridare vigore alla riforma di Paolo VI. A Torino, durante la visita di Benedetto XVI nel 2010, la scelta del cerimoniere papale di usare il consueto latino durante il canone della Messa in piazza San Carlo, fu assai criticata dai liturgisti torinesi. Si   rifecero però durante la visita di papa Francesco nel 2015 quando, all’allibito ma remissivo monsignor Marini, riuscirono ad imporre le chierichette sull’altare papale allestito in piazza Vittorio Veneto. 

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