Delocalizzazioni, non serve punire

Di recente fra le varie iniziative del Governo si è discusso di un decreto che dovrebbe avere lo scopo di bloccare le delocalizzazioni. Indubbiamente una simile iniziativa va a comprimere la già ridotta libertà di impresa, che per quanto le si dota di una sorta di vita autonoma, in realtà sono proprietà che fanno capo a uomini in carne ed ossa, come può essere la proprietà di una casa o di un’automobile. Nessuno ha piacere a vedere uno stabilimento chiuso e i dipendenti a spasso, ma invece di capire il perché delle delocalizzazioni e di cercare di rimuovere le cause ci si vuole accanire con multe e tasse. Queste ultime, come spesso accade, finiscono per colpire piccoli e medi, mentre i grandi ne vengono solo lambiti. Tra le altre cose non si riesce a capire come debbano funzionare questi disincentivi alla chiusura. Teoricamente dovrebbero colpire le imprese che intendono chiudere uno stabilimento nonostante siano in utile, perché questo potrebbe implicare il trasferimento della produzione da un’altra parte. Ma una grossa azienda che lavora con delle filiali che hanno una loro autonomia giuridica non potrebbe dimostrare con una certa facilità che una particolare filiale è in perdita e va chiusa?

In fondo il difficile è guadagnare e non perdere soldi. Basterebbe abbassare qualche prezzo, consegnare in ritardo per pagare una penale, affidarsi a un trasportatore inefficiente, mettere alla dirigenza persone non preparate e così via. Non mi pare che bisogna poi fare tanto per fare andare in perdita un’azienda. Il decreto sembra animato da buone intenzioni, ma poco efficace per gli obiettivi che si è posto con il solo risultato di aumentare la burocrazia e rendere più difficile la vita alle imprese e cosa più grave a scoraggiare gli investimenti esteri. Bisogna aggiungere che in passato con l’entrata nell’Unione Europea dei paesi dell’Est, c’è stata un’ondata di delocalizzazioni verso quei paesi per il basso costo del lavoro anche da parte di aziende relativamente piccole, però negli anni successivi alcune produzioni sono rientrate in Italia perché non si riusciva ad ottenere la stessa qualità di prodotto e per l’ovvia difficoltà logistica a tenere sotto controllo la catena degli approvvigionamenti. Quest’ultimo problema si è ripresentato con maggiore drammaticità con il Covid e i conseguenti lockdown e controlli alle frontiere: le aziende che avevano tutta la produzione in loco hanno sofferto di meno. Decidere di delocalizzare non è una decisione facile almeno per piccole e medie imprese.

Invece di pensare a provvedimenti punitivi nei confronti delle imprese perché non indagare sulle cause e cercare di rimuoverle? Sul costo del lavoro non si può intervenire molto perché gli stipendi italiani sono già bassi, ma un ritocco alle aliquote Irpef potrebbe aiutare. Per esempio dopo i 28mila euro di stipendio lordo scatta l’aliquota del 38% che è un’aliquota da super ricchi quando i 28 mila lordi corrispondono a uno stipendio medio fra i 1400 e i 1500. Un altro settore su cui intervenire è la burocrazia: semplifichiamola! Ci sarebbero da migliorare tutte le infrastrutture sia fisiche che digitali e diminuire i costi energetici. Non è possibile sentire di aziende che mettono i loro server in altre nazioni perché l’energia costa meno e la rete è migliore. Un’ultima nota la dedichiamo alle aziende che ricevono sussidi statali per impiantarsi in una data zona e poi decidono di chiudere. In questo caso è giusto chiedere che in caso di chiusura anticipata vengano restituiti gli aiuti ricevuti, ma ovviamente non si può pretendere che questa regola valga per decenni. All’inizio si stabilirà un termine per esempio di cinque anni, al termine del quale, l’azienda sarà libera di chiudere. D’altro canto con la mutevole situazione economica è difficile stabilire termini molto lunghi, perché fra dieci, venti anni alcuni prodotti e alcune tecnologie non esisteranno più.

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