SACRO & PROFANO

Chiesa in "Sinodo permanente"

Conclusi i lavori dell'assemblea diocesana di Torino. A fronte di una drastica riduzione del clero e di "un laicato impreparato", occorre affrontare le "sfide contemporanee". Mercoledì summit dei vescovi del Piemonte per emanare direttive sulla Messa antica

Tempo di sinodi. Ieri si è svolta l’ultima sessione dell’assemblea diocesana di Torino, apertasi il 28 maggio sul tema “Andate, siate lievito del Regno. Chiesa che ascolta e guarda al futuro” e sul quale lo Spiffero ha puntualmente riferito.  Dai vari “cantieri” è emerso un documento finale propositivo che si divide in due sezioni: l’annuncio, la formazione e la riforma della curia. In un’ottica di «conversione pastorale», l’idea di fondo è che, a fronte di una drastica riduzione del clero e di «un laicato impreparato», occorra mettere la Chiesa in uno stato di «sinodo permanente» per superare il clericalismo e per «aprirsi a una reale corresponsabilità» affinché, tra l’altro, la comunità ecclesiale «possa dire una parola qualificata sulle sfide contemporanee». Si ripropongono allora responsabilità dei laici, ruolo delle donne, cultura e dialogo, valori del Regno, parole chiave tante volte udite e temi tante volte dibattuti. Circa la formazione, ci si domanda anche perché «numerose e buone attività formative di decenni non hanno sortito l’esito sperato». Sulla riforma delle strutture, si propone «la pianificazione dei centri pastorali gestibili» e «il lavoro in curia per progetti». Gli interventi, moderati dal vicario generale monsignor Valter Danna e non privi di spunti e di interesse, hanno messo in luce, sia pure in sottofondo ma ben presente, la tensione tra «orizzontalità» e «verticalità» nell’approccio al mondo da parte della Chiesa.

Non pochi, anche tra i preti, hanno osservato come, dopo tanto discutere e «sinodalizzare», sia poi perfettamente inutile rimettersi a discutere nel nuovo sinodo, quello chiesto da Papa Francesco a tutte le diocesi e che anche Torino dovrà indire, come stanno facendo le diocesi piemontesi. Si potrà dire qualcosa di nuovo e di diverso da quanto è già stato detto?  L’inesauribile fantasia dei burocrati ecclesiali riuscirà sicuramente ad escogitare qualche soluzione.

L’ultimo sinodo della Chiesa torinese fu voluto e indetto nel 1994 e concluso nel 1996 dal cardinale Giovanni Saldarini, arcivescovo mai accettato e digerito dall’allora come oggi egemone – ma ben più consistente – ala progressista che, obtorto collo, fu quasi costretta a parteciparvi cercando tuttavia di limitarne la portata e ridimensionarne l’applicazione. Il sinodo fu comunque subito dimenticato e travolto dall’attivismo del nuovo arcivescovo Severino Poletto. Amici ci hanno ricordato queste parole di Saldarini ben lontane dai «valori  del Regno» e che, meglio di altre, spiegano quale fosse il suo approccio all’evento sinodo e mettono in primo piano quella dimensione soprannaturale e radicata in Cristo – data troppo per scontata – che non si riscontra negli attuali «cantieri» e che rimanda ad una teologia ritenuta troppo assertiva e ormai  superata: «Il senso della parola di Gesù “Io sono la via, la verità e la vita” non è “Io sono la via della verità e della vita”, quanto quello di tre dichiarazioni dirette e assolute nelle quali Egli si appropria il nome santissimo di Dio: “Io sono”; l’unico uomo in tutta la storia che ha osato tanto, proprio per affermare che Egli è la Via, l’unica giusta; la Verità, tutta; la Vita, quella eterna;  Voler fare Sinodo da membri del Suo corpo che è la Chiesa non può dunque prescindere da questo atto di fede in “Gesù via”: è con Lui che intendiamo verificare i nostri itinerari ecclesiali, spirituali, morali e pastorali».

Dum Romae consulitur, Saguntum expugnatur. Don Mario Foradini, 85 anni, parroco di San Secondo, infaticabile evangelizzatore nonché vulcanico promotore di iniziative sociali ha lanciato l’allarme in una lettera ai fedeli che ormai disertano la Messa senza la quale «il cuore umano rimane vuoto, senza la gioia di sentirsi amato». Sono ormai scesi al 4% coloro che vi partecipano. La responsabilità sarebbe delle famiglie e delle istituzioni, a cominciare dalla scuola. Forse però il decano dei parroci torinesi dimentica fra di esse anche la Chiesa che, con il suo orizzontalismo e la riduzione ad agenzia di servizi, non è esente da colpe.

È diventato subito virale sui social, meritandosi persino segnalazioni su alcuni giornali, la simpatica immagine di Enzo Bianchi che su Twitter mostra una bella teglia di peperoni farciti da lui confezionati con l’invito agli amici ad andare a rallegrargli la mensa nel suo eremitaggio comunitario torinese. È l’appello a non essere lasciato solo in quello che definisce il suo «esilio»; dalla fotografia sembrerebbe – e non potrebbe essere altrimenti – che egli abbia preso dimora in un condominio del centro di Torino. Proprio in questi giorni è stata resa pubblica un’intervista di Riccardo Larini dal titolo Non dimenticare il tesoro di Bose, in cui l’autore, antico discepolo di Bianchi, ne prende, anche con rilievi critici, le difese, in particolare sulle modalità con le quali l’ex priore è stato allontanato dalla comunità che egli fondò nel 1965. Larini lo ha visitato recentemente e scrive che Bianchi non riesce a camminare più di qualche decina di passi da solo. Venerdì 28 settembre prossimo, comunque, Enzo Bianchi sarà ad Alba dove al Teatro Sociale interverrà sul tema «Sbagliare, imitando Cristo». In ogni caso, qualunque sia il suo stato di salute e comunque la si pensi sul conflitto che ha dilaniato Bose, tutta la vicenda presenta molti lati oscuri – a partire dalla mancata esplicitazione delle accuse che hanno determinato i provvedimenti assunti – e rappresenta l’ennesima forma di disinvolto ed autocratico esercizio del potere da parte di Papa Francesco, così come avvenuto sul “caso Becciu” e in diversi altri casi.  Secondo Larini, a Bose sono stati violati i diritti umani poiché «nessuna autorità al mondo, neppure quella di un pontefice per un cattolico, può giustificare provvedimenti così duri, immediati e inappellabili, senza alcun processo, senza contenzioso e senza spiegazioni dettagliate».  Su questo punto, progressisti e tradizionalisti sono d’accordo, anche se i primi non lo possono manifestare apertamente.

Mercoledì 15 settembre si riuniranno i vescovi piemontesi e all’ordine del giorno, su iniziativa, pare, del vescovo di Novara monsignor Franco Giulio Brambilla – uno dei 61 teologi italiani che nel 1989 firmò una dichiarazione contro le «spinte regressive» del papato di Giovanni Paolo II e del cardinale Joseph Ratzinger che poi, diventato papa, lo fece vescovo – si tratterà dell’applicazione in Piemonte di Traditionis Custodes. Qualcuno dice che saranno emanate poche regole chiare alle quali i vescovi dovranno attenersi, altri che entreranno nel dettaglio e in questo caso saranno ancora più restrittive di quanto disposto dal Papa. Un vecchio detto curiale dice che, essendo la Chiesa il regno delle eccezioni, quando si vuole vietare qualcosa si invocano le regole. Quasi sicuramente, quegli stessi vescovi che hanno fatto di tutto perché in Piemonte Summorum Pontificum non venisse applicato, diranno che non vi sono fedeli legati alla Messa antica e sacerdoti che sappiano celebrarla. Si pensi che quando nel 2007 uscì il motu proprio di Benedetto XVI che liberalizzava la Messa antica, predisposero un documento – poi non pubblicato – per limitarne drasticamente la portata. Questa volta si agirà al contrario. Vedremo. Abbiamo però una certezza. La lettera di Papa Francesco che accompagna il motu proprio invita i vescovi a «vigilare perché ogni liturgia sia celebrata con decoro e fedeltà ai libri liturgici promulgati dopo il Concilio Vaticano II, senza eccentricità che degenerano facilmente in abusi». Su questo i nostri presuli taceranno e comunque non faranno nulla perché Andrea Grillo, teologo di riferimento di tutti i liturgisti e di vari vescovi, nonché ispiratore di Traditionis Custodes, ha già dettato la linea: «Non abuso da ostacolare, ma uso da promuovere». I fautori della creatività, dissolutrice della liturgia, possono dormire sonni tranquilli.

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