Il "valore aggiunto" dei sindaci

Come ben sappiamo, ogni livello di governo nel nostro paese è accompagnato da un sistema elettorale diverso. Dai Comuni alla Regione, dalla Camera al Senato al Parlamento europeo. Leggi elettorali che cambiano come le stagioni meteorologiche perché ogni maggioranza politica – a prescindere dal colore politico – cambia sistematicamente le regole elettorali per battere meglio l’avversario o il nemico politico di turno. Un malcostume politico che nella prima repubblica non esisteva, come ovvio, ma che ha preso piede con l’avvento del cambiamento e del cosiddetto rinnovamento della seconda repubblica. Rinnovamento fa per dire, come tutti sanno. Perché da quella stagione, la politica ha conosciuto la sua crisi più grande e macroscopica prima di cadere nel “nulla della politica”, per dirla con l’indimenticabile Mino Martinazzoli, che è coincisa con l’avvento al potere del populismo e del giustizialismo dei 5 stelle.

Ora, però, per fermarsi ai Comuni – e nello specifico alle prossime elezioni comunali della città di Torino – è un po’ scomparso dal dibattito e dall’attenzione dei media il tema del cosiddetto “valore aggiunto” del candidato a sindaco. Valore aggiunto che si poteva misurare concretamente nel territorio quando vigeva, per la Camera e per il Senato, il sistema denominato “mattarellum”. Cioè i voti che il singolo candidato nel collegio otteneva in più rispetto alle liste e alla coalizione che lo appoggiavano. Un sistema, per fare un breve riferimento autobiografico, che ha permesso al sottoscritto di vincere per ben due volte nel collegio di Pinerolo, grazie proprio a un consistente “valore aggiunto” del candidato rispetto alla coalizione che mi appoggiava. Valore aggiunto che negli anni ha premiato personaggi come Sergio Chiamparino – almeno sino a quando si candidava a sindaco di Torino e non per la Regione Piemonte alle ultime elezioni del 2019 – o altri candidati del centrodestra, seppur in minor misura, come Alberto Cirio alle medesime regionali. Ma già nel passato, quando esisteva appunto il “mattarellum” erano pochissimi i candidati che ottenevano più consensi della coalizione di cui erano espressione. Il più delle volte, anzi quasi sempre, erano al di sotto delle coalizioni o almeno pareggiavano quello che prendevano i rispettivi partiti di appartenenza.

Ecco perché adesso diventa curioso verificare, al di là dei sondaggi commissionati dai vari partiti che sono sempre un po’ sospetti e comici, quale sia realmente il valore aggiunto – se esiste, come ovvio – dei candidati rispetto alla propria coalizione. A cominciare sicuramente – o meglio, quasi certamente – da chi andrà al ballottaggio a Torino tra il candidato del centrosinistra Stefano Lo Russo e quello espressione del centrodestra Paolo Damilano. Perché se dovessimo registrare una perfetta coincidenza tra il consenso dei partiti e quello dei candidati a Sindaco espressione della coalizione, allora dovremmo arrivare alla facile conclusione che il candidato, di fatto, non è nient’altro che la somma aritmetica dei vari partiti e delle molteplici e simpatiche liste civiche che lo affiancano. Il che, significherebbe, ancora una volta, che i leader autorevoli e trascinatori del passato si sono ridotti sempre di più al lumicino e sono quasi introvabili. Cioè, detto in altri termini, sono inesistenti.

Comunque sia, lo verificheremo il prossimo 4 ottobre. È un dato, questo, curioso ed importante perché dopo tanta propaganda e tante risorse investite e spese, abbiamo anche la possibilità di capire se i torinesi individuano nel futuro sindaco un vero leader politico o un semplice candidato dei partiti e della sua coalizione.

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