SACRO & PROFANO

Stallo sulla scelta del nuovo vescovo,
San Lorenzo ridotta dei "boariniani"

Tra "suggerimenti" di nomi e veti si allungano i tempi delle consultazioni del nunzio apostolico. Sotto la cupola del Guarini grande apprensione nel gruppo di preti intellettuali, con un peso ancora rilevante in curia (e in una parte del clero)

I vescovi piemontesi stanno rispondendo all’invito del nunzio apostolico, monsignor Emil Paul Tscherring, e ognuno di loro si sta esercitando nel segnalare il nominativo di un confratello nell’episcopato o di un presbitero che, esaltandone le virtù di pietà e prudenza sia, a loro giudizio, degno di diventare arcivescovo di Torino. O anche, nel mettere in guardia da colui o da coloro che è bene non assurgano affatto a tale seggio. Appare ormai chiaro che non prima della fine dell’anno si avrà l’annuncio. Intanto la diocesi si sta snervando in attesa del nuovo pastore, tutto appare fermo in attesa di sapere chi ne prenderà la guida, quale linea adotterà, cosa ci sarà da aspettarsi. Tutto è come sospeso e nei conciliaboli clericali non si discute che del totovescovo.

Pare siano particolarmente in fibrillazione gli abitanti dei locali annessi alla Real Chiesa di San Lorenzo in piazza Castello, dove dimorano i canonici della Congregazione di San Lorenzo del capitolo della SS.Trinità e dove ha sede il serbatoio di pensiero, il think tank della diocesi. San Lorenzo è però molte cose. Soprattutto è il luogo in cui i più illustri adepti del clero “boariniano” hanno la loro residenza stabile e la loro “centrale operativa”. Si deve infatti sapere che mentre i preti tradizionali vengono dispersi sul territorio diocesano nella speranza (vana) che non possano unirsi tra loro – e questo già dice, in tempi di internet, dell’inefficacia di una simile antiquata misura – per i preti progressisti funziona all’opposto e San Lorenzo ne è un esempio dei più preclari. Fu il cardinale Severino Poletto, sempre attentissimo agli equilibri clericali e a compiacere chi potesse essergli debitore e tornargli utile, a riunire sotto lo stesso tetto, riorganizzando il capitolo di San Lorenzo, la scolta eletta della presunta intellettualità diocesana di cui comunque non si è mai fidato fino in fondo. Nacque così il Centro Culturale San Lorenzo in cui esercitano il ministero dell’intelligenza alcuni dei più noti docenti della facoltà teologica, in gran parte compagni di corso.

Il presidente del capitolo e rettore della chiesa è, dopo una vita trascorsa fuori diocesi, don Giovanni Ferretti, classe 1933, ordinato nel 1957, filosofo e storico della filosofia, ex rettore dell’Università di Macerata dove era professore ordinario di filosofia teoretica e che è un po’ la guida e l’ispiratore teoretico del gruppo di cui fanno parte don Roberto Repole, già presidente dei teologi italiani, don Paolo Tomatis, liturgista principe, don Alessandro Giraudo, canonista e cancelliere arcivescovile, don Germano Galvagno,  biblista e responsabile della formazione del clero giovane. Ad essi si aggiunge l’emergente boariniano di complemento don Michele Roselli, classe 1973, ordinato nel 2003, direttore dell’ufficio catechistico e responsabile della formazione permanente del clero e dei laici. Tutti accomunati da un idem sentire, non tanto cum Ecclesia, quanto con una propria visione teologica ed ecclesiologica, ma anche da uno stile di vita più da intellettuali che da sacerdoti, secondo quel dualismo che ormai caratterizza il clero del nord-Europa, sempre più diviso tra studiosi da una parte e preti -trottola, oberati di incarichi e costretti appunto a girare in continuazione, dall’altra. L’aria che si respira a San Lorenzo è quella dello spleen meditativo che il garbo e il sorriso stereotipo dei canonici a mala pena riesce a celare.

Secondo Ferretti – personaggio di notevole statura – diventato tanto fan di Papa Francesco quanto era critico di Ratzinger – occorre «ripensare il cristianesimo» e «ritradurre la fede» secondo la coscienza ermeneutica della Modernità, per cui l’annuncio va «svestito» delle categorie di pensiero e di linguaggio passate e rivisto in riferimento alle categorie e alle sensibilità moderna e post-moderna. Così va superata la visione sacrale della Bibbia, di Dio e della morale e di conseguenza definitivamente accantonata la visione ascetico-sacrificale che ha caratterizzato il cristianesimo storico.

Don Roberto Repole, classe 1967, ordinato nel 1992, è il direttore della facoltà teologica torinese, la sua teologia si potrebbe definire il versante clericale del pensiero debole di vattimiana memoria. Dio e il cristianesimo non possono che essere pensati fuori dal «sacro» come «deboli», così una Chiesa – tutta da ripensare – deve essere umile, perché non ha pretese veritative ma è semplicemente al servizio dei poveri, così il sacerdote non può più essere “l’uomo dell’Eucaristia” ma soltanto un cristiano. Anche la Chiesa deve iniziare a sperimentare «processi democratici», similmente alle moderne forme statuali poiché alla secolarizzazione è illusorio opporsi e pertanto non ci si può che adattare alle mutate condizioni del credere che essa impone.

A proposito di “volumetti”, occorre sapere che la definizione è da attribuirsi nientedimeno che all’emerito Benedetto XVI. Nel 2018 scoppiò lo scandalo che portò il capo della comunicazione vaticana monsignor Edoardo Viganò alle dimissioni per aver per aver clamorosamente manipolato – fabbricando una fake news – una lettera riservata di Benedetto in cui si usava il suo nome per lanciare la collana La teologia di Papa Francesco. Nella parte omessa, Benedetto definiva «volumetti» i libri dedicati al suo successore, chiarendo che tra gli autori figurasse anche il nome di Peter Hunermann il quale «durante il mio pontificato si è messo in luce per aver capeggiato iniziative antipapali» arrivando a costituire in Germania un istituto per contrastare il suo pensiero. Fra questi «volumetti», era presente anche un testo di Repole il quale è noto per la teoria, ricorrente in tutte le occasioni, per cui esiste una Chiesa del prima e una del dopo, assolutamente incompatibili fra di loro. La prima – ancorché gloriosa e piena di meriti – non ha più nulla da dire agli uomini d’oggi, la seconda – quella che da cinquant’anni è in costruzione – ancora tutta da ideare, progettare e costruire. Come anche un giovane seminarista può notare, è questa la tipica ermeneutica conciliare della rottura e della discontinuità, sin dal 2005 stigmatizzata da Benedetto XVI, per cui si può comprendere bene come questi non abbia perso tempo nella lettura, fra gli altri, del «volumetto» del teologo torinese.

Don Germano Galvagno, classe 1968, ordinato nel 1993, riveste il ruolo dell’inquisitore, egli deve seguire i preti giovani, osservarne il comportamento, verificare che non si discostino – anche nelle scelte politiche – da quel modello di «prete torinese» che non deve avere più nulla di tridentino o troppo «classico» e meno che mai guardi alla tradizione superata dei don Bosco, Cafasso o Murialdo, che sia critico del magistero pontificio antecedente a Francesco e si ispiri all’uniforme grigiore, tendente al depresso, che è poi la cifra del conformismo ecclesiale progressista torinese.

Don Paolo Tomatis, classe 1968, ordinato nel 1993, liturgista, assolve alla funzione, sempre più oracolare, di riscoprire e far accettare, a cinquant’anni di distanza, la bellezza della riforma liturgica messa in confronto alla «povertà» della Messa antica e quindi nell’esaltare l’incomparabilità del nuovo Messale. Ultimamente, cerca di tenere una via mediana, tra eccessiva creatività e rispetto del rito, un colpo al cerchio e uno alla botte, ma l’impresa appare impossibile.

Don Alessandro Giraudo, classe 1968, ordinato nel 1993, è il giurista del gruppo, attualmente stimato cancelliere, competente e professionale, per cui il confronto con il predecessore Giacomo Maria Martinacci è tutto a suo favore. Di lui è stata avviata l’inchiesta dei «promovenda» episcopali.

Da sempre, il gruppo ha avuto l’ambizione di essere non solo la mente – spesso inascoltata dai vescovi e ancor più dai preti – ma soprattutto la guida della diocesi. È stata così concepita e messa in atto dagli amici che siedono nel consiglio presbiterale l’dea di istituzionalizzare un organismo, non previsto dal diritto che – a prescindere da chi sia il vescovo – possa “governare” il clero, formarlo alla loro “buona” teologia e “guidarlo” nell’azione pastorale, attuando anche una specie di controllo contro le “deviazioni” e le “derive” del peggior nemico che non è l’indifferentismo o il relativismo, ma il tradizionalismo. Quello che è stato definito il «presbiterio», sarebbe una specie, per usare un termine politico, di super partito egemone, quasi un “Grande Fratello” in miniatura ma l’idea, elaborata e lungamente discussa, non ha avuto finora corso, forse perché se ne intuivano le sottese finalità. Sicuramente, al sinodo locale il gruppo – a differenza di altri, organizzato e coeso – farà sentire la sua voce. Il loro candidato ideale sarebbe l’arcivescovo di Modena e sodale di don Repole, monsignor Erio Castellucci.

Si comprende allora come, per i buoni canonici di piazza Castello e per i loro adepti, avere un vescovo amico, che li tenga in considerazione, ne ascolti i consigli e ne attui i propositi, nominando magari uno di loro o un loro amico meno protagonista – come potrebbe essere don Alessandro Giraudo – vescovo ausiliare o vicario generale, sarà assolutamente decisivo. Per questo sotto la cupola del Guarini sono tempi questi, più che altrove, di viva apprensione.

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