Le corporazioni che bloccano il Paese

Siamo ridiventati il Paese delle corporazioni. Il sindacato, che nella sua nascita e sviluppo si è evoluto dalle Società di Mutuo Soccorso, non ha trovato emulatori. Anzi, ognuno si sta chiudendo dentro la sua rappresentanza, difendendo il “fortino” della corporazione. Il sindacalismo autonomo si espande grazie a questa logica ma anche per difficoltà di quello confederale a rappresentare i nuovi mestieri. L’esempio più preoccupante è la mancanza di personale medico e infermieristico a fronte degli stanziamenti del Pnrr. La realizzazione di nuovi ospedali e case di comunità rischia di frantumarsi contro l’ostracismo categoriale dei sindacati corporativi che difendono previlegi e non guardano alla società. Vale per tutto il Paese e vale ancor più per Torino. Così come le categorie del commercio non vogliono l’estensione degli ammortizzatori sociali perché bisogna pagare la quota di sostegno al fondo. Siamo un Paese dove devono sempre essere altri a pagare, nemmeno quando un servizio ci può servire, non riesce a fare breccia nel corporativismo.

Questo è uno dei limiti alla crescita occupazionale, se il posto fisso, nell’industria, diventa quasi impossibile raggiungerlo ecco che la possibilità di diventare lavoratore/imprenditore autonomo si infrange davanti alle categorie a numero chiuso che difendono reddito e privilegi. Le liberalizzazioni sono osteggiate, dai taxisti ai balneatori, dai notai agli avvocati si levano grida ostili verso il Governo. Draghi è un pericoloso banchiere per Landini e un altrettanto pericolo comunardo per le corporazioni degli evasori fiscali.

Quando tutti, Bonomi in testa, chiedono di metter al centro le persone dovrebbero spiegare cosa significa in pratica. E non basta dire che bisogna mettere più soldi nelle tasche degli italiani, ovviamente non soldi delle imprese, giammai! Ma soldi dello Stato attraverso la riduzione delle tasse. Se per prenotare una visita al Servizio Sanitario ci vogliono tre-quattro mesi di attesa non è un problema; agli imprenditori, rappresentati da Bonomi, i soldi rientrano nelle loro tasche attraverso la sanità privata. Meno tasse e più guadagni, duplice risultato. Nessuno vuole dare, ma tutti vogliono prendere. Così non si crea lavoro. Allora bisognerebbe cominciare a non difendere più i miti e proporre uno scambio vero, con costi, a Confindustria così almeno lo “scontro di classe”, non giornalistico ma vero, avrebbe un senso.

Il mercato del lavoro e le politiche attive sono state in questi decenni tante belle parole mai concretizzate. Il contributo pubblico è scarsissimo. Il 3% a Torino passa attraverso i Centri per l’Impiego. Bene, lasciamolo in mano alle aziende, lo gestiscano loro, noi chiediamo però uno scambio. Qualcuno dirà: così faranno politiche di assunzione mirate con parenti, fedelissimi. Certo, ma quando devi mettere in cassaintegrazione o licenziare le politiche del consenso vanno a farsi “benedire”. Quindi le imprese si prendano sia il consenso inziale che l’eventuale dissenso. Il sindacato deve chiedere più garanzie, a fronte di un mercato del lavoro liberalizzato completamente, sulle percentuali di assunzioni a tempo determinato e altri contratti atipici (d’altra parte se assumono solo parenti e fedelissimi non li possono tenere tutti precari). Riconosciamo che su questi temi non siamo riusciti a ottenere risultati ed evitiamo, come con l’articolo 18, che una posizione solo difensiva impedisca scambi a tutela della crescita occupazionale. Usciamo dallo schema per cui tutto ciò che si fa lo deve pagare qualcun’altro. A Confindustria poniamo questo problema, allora lo “scontro di classe” sarà musica per le orecchie landiniane.

Sulla proposta confederale della pensione di garanzia ai giovani traduciamola in una proposta concreta e diciamo che ha un costo: non può che essere una pensione integrativa per cui lavoratore e impresa versano una quota per ogni giorno lavorato, sul modello delle pensioni integrative delle categorie con la differenza che diventa obbligatoria. Le proposte costano, anche per i lavoratori, perché avere la copertura dell’ammortizzatore sociale per il dipendente del negozietto costa, poco, al datore di lavoro, costa un po’ anche al lavoratore. Bisogna avere il coraggio di chiedere alle imprese e dirlo ai lavoratori. Pagare per un servizio in un Paese che vuole crescere non dovrebbe essere disdicevole ma ormai l’educazione civica imperante è basata sul non fare pagare nulla a partire dalla propria corporazione.

Se abbiniamo questo al volume di progetti da realizzare con il Pnrr e i relativi finanziamenti rischiamo di arrivare al 2026 a stringere un pugno di mosche, altroché pil al 6% di crescita. Avremo debiti da pagare. Allora dovremmo costruire la “Corporazione del Bene Comune” in cui chiamerei a farne parte gli amministratori locali e il sindacato. Almeno così se Landini vuole fare sciopero generale contro l’orco Draghi – che in realtà ha fatto ampie aperture di dialogo sulle pensioni e mette oltre 20 miliardi per la crescita a fronte del fatto che abbiamo fatto quattro (4!) ore di sciopero contro la riforma Fornero – potrà riflettere sulla differenza tra Draghi e Fornero e proporzionare il suo carico ideologico. Già ma è troppo facile “sparare” contro l’uomo delle banche: è gratis; mentre è ben più difficile aprire una vertenza contro i padroni. Perché chiedere a Confindustria di mettere mano al portafoglio, fare un accordo vero (gli accordi senza costi non servono e non valgono nulla) è estremamente difficile, mette a rischio anche la leadership se non sai portare a casa il risultato.

Oggi è tempo di uno scambio oneroso tra le parti sociali, anche conflittuale. Riprendere un “conflitto di classe” servirebbe a regolamentare di nuovo i rapporti tra le parti sociali, compreso il Governo, riportando il Paese su valori più solidali.

print_icon