Anno nuovo, vecchi problemi

Eravamo consapevoli di come, anche questa volta, fosse un azzardo augurare buon anno, e infatti i propositi più ottimistici esternati a fine dicembre stanno ora facendo i conti con la realtà. Nell’arco di una manciata di giorni, i rassicuranti scenari di Natale sono drammaticamente mutati in tangibili tensioni sia di carattere nazionale che internazionale. Il volto che il premier Draghi ha mostrato alle telecamere, in occasione della recente conferenza stampa, non riusciva a celare il disagio.

Il governo sta constatando come non sia più sufficiente individuare un gruppo sociale su cui scaricare ogni colpa di quanto sta accadendo dal punto di vista sanitario, per esimersi da qualsiasi responsabilità. Il premier per ben tre volte ha ripetuto davanti ai giornalisti: “Noi siamo i primi, occorre ridurre i non vaccinati”, in un tentativo di rassicurare il pubblico sull’indiscutibile efficienza del suo governo nella lotta contro l’epidemia.

Il risultato ottenuto però è quello che vede un Paese diviso pericolosamente in due, una società profondamente spaccata mentre guarda i contagi salire verso livelli mai visti prima. L’Italia è un esempio raro in Europa di gestione della crisi sulla base del modello scolastico in voga un tempo alle elementari, quando gli alunni erano incaricati di fare due elenchi sulla lavagna in cui collocare i “Buoni” e i “Cattivi”. Su questi ultimi si abbatteva poi la punizione rituale, quella che fungeva da esempio nei riguardi degli altri. Il tutto condito da irrispettose fake news create ad arte per convincere sia i “Buoni” a diventare “Cattivi”, che viceversa i “Cattivi” a diventare “Buoni”.

L’emergenza, i cui effetti hanno logorato gran parte della popolazione, ha avuto quale esito collaterale pure la distrazione di massa e così, mentre si impiegano ore in dibattiti deprimenti, passano inosservati i venti di guerra che stanno scompigliando i cieli del nostro continente.

Gli Stati Uniti sognano da sempre di poter mettere piede nel cortile di casa della Russia. L’allargamento della Nato ad Est è di certo una priorità atlantica da raggiungere a qualsiasi prezzo, una precedenza rafforzata anche dai recenti sondaggi che indicano le percentuali di fiducia nell’attuale Presidente in caduta libera. La storia americana insegna come qualsiasi leader possa risalire la china, evitando una eventuale débâcle elettorale alla candidatura di rielezione, mostrando i muscoli al mondo intero.

In questi giorni le grandi manovre militari e gli ultimatum interessano il cuore dell’Europa, consegnando il timore che presto l’esperienza jugoslava possa essere replicata, seppur in questo caso non con lo scopo di favorire la disgregazione nazionale ma al contrario per impedirla con la forza.  In Occidente le secessioni sono infatti gradite in alcuni casi, come appunto in Jugoslavia, e impedite duramente in altri (come testimoniano il Donbass, la Catalogna, i Paesi Baschi, le provincie fiamminghe in Belgio, l’Irlanda del Nord, la Scozia) secondo criteri che sono marcatamente legati al dominio sulle aree di puro interesse strategico.

Le sventure, è risaputo, non arrivano mai da sole, quindi alla già complessa situazione geopolitica di inizio anno non poteva mancare la ciliegina sulla torta: l’elezione del nuovo presidente della Repubblica italiana. La successione del presidente Mattarella viaggia su binari pericolosi, che tra le altre cose sembrano destinati a incrociarsi provocando rilevanti deragliamenti democratici. Da una parte infatti procede il treno che ospita il presidente Berlusconi diretto alla volta del Quirinale, politico tra i più discussi e indagati della nostra Storia patria, e sull’altra via ferrata corrono le carrozze su cui è ospitato l’attuale premier Draghi, apprezzato da coloro che vorrebbero istituire in Italia il sistema semipresidenziale in sostituzione di quello attuale che ha il Parlamento al centro.

Desta ulteriore preoccupazione il sopraggiungere di un imprevisto terzo convoglio ferroviario, il quale si dirige rapidamente laddove si incrociano i binari guidato dalla convintissima presidente del Senato, Maria Elisabetta Alberti Casellati detta “la zarina”. Si deduce quindi che la presidenza dello Stato toccherà questa volta a un rappresentante della destra, decisione benedetta anche da Renzi, con esclusione di candidature dal profilo meritevole appartenenti ad altre aree politiche (avrei in mente un paio di nomi che per scaramanzia non esprimo). Il patto per il Quirinale, siglato da alcune delle forze che sostengono l’attuale scricchiolante governo, priva il Paese di statisti affidabili, e quindi preziosi per la collettività, consegnandolo nella mani di quella che in passato avremmo definito “la reazione oscurantista”.

Siamo appena a metà gennaio, e forse già ci tocca rimpiangere il crudele 2021.

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