L'humilitas del vescovo Repole e la "spintarella" di don Ciotti
Eusebio Episcopo 07:00 Domenica 06 Marzo 2022Come preferirà farsi appellare il successore di Nosiglia? E quale sarà il motto dello stemma episcopale? Sulla nomina pare abbia svolto un ruolo fondamentale il noto "prete di strada" torinese, dai forti agganci con l'establishment ecclesiale e politico
Voci autorevoli dicono che l’arcivescovo eletto di Torino Roberto Repole abbia avuto fra i suoi più autorevoli sponsor nel bunker di Santa Marta don Luigi Ciotti, quello che è il più noto prete torinese “di strada”. Praticamente indipendente da ogni legame con la diocesi, il settantaseienne fondatore del Gruppo Abele è da decenni uno dei più rappresentativi esponenti dell’establishment sabaudo con forti e consolidati agganci con i poteri forti del capoluogo e della regione.
Stabilito che il nuovo arcivescovo sarà ordinato in cattedrale domenica 7 maggio e che prenderà possesso della diocesi di Susa il giorno successivo, sono in molti nel mondo clericale e laico a chiedersi con quale titolo egli vorrà essere appellato: Eccellenza, monsignore, padre o semplicemente don Roberto? Ai primi due tenevano molto Saldarini e Poletto, padre fu il titolo scelto da Pellegrino, mentre Ballestrero e Nosiglia erano indifferenti. Se possiamo azzardare un pronostico, il nuovo arcivescovo continuerà a farsi chiamare don Roberto. Sembra infatti che tale minimalismo nei titoli sia diventato di moda nei vescovi di ultima nomina e abbia anche un significato ben preciso di natura ecclesiologica. Tra poco dal Vaticano chiederanno al nuovo presule indicazioni per l’elaborazione dello stemma episcopale e la scelta del motto. A proposito di stemma episcopale, è noto come un ex vescovo ausiliare di Torino, interpellato in merito avesse chiesto di poter inserire nello scudo una spiaggia con ombrellone e sdraio sotto il sole splendente. Naturalmente non fu accontentato e dovette ripiegare su di una simbologia più tradizionale. Per il vescovo Repole, considerato il contenuto della sua produzione teologica, mal non si adatterebbe la divisa dell’humilitas, se non fosse che essa era il motto di S. Carlo Borromeo, campione e modello dei vescovi della Controriforma.
Uno dei temi caldi in discussione al sinodo tedesco è l’intercomunione, la possibilità cioè che i fedeli protestanti e quelli cattolici possano lecitamente accostarsi alle rispettive comunioni. Recentemente condannata da un responsum della Congregazione per la Dottrina della Fede, tale prassi è da anni assai diffusa – sotto l’occhio benevole dei vescovi – in Austria e in Germania. Per gli ortodossi, invece, la comunione eucaristica tra cristiani è possibile solo se si condivide la stessa idea di Chiesa e per questo non concepiscono l’intercomunione. Si tratta allora – secondo un collaudato costume che ha sempre avuto successo, specialmente in materia liturgica – di forzare la mano a Roma avviando sperimentazioni al fine di aggirare prima e superare poi ogni ostacolo dottrinale tra Messa cattolica e Cena protestante con l’obiettivo di imporre anche in Italia quella che eufemisticamente viene denominata «ospitalità eucaristica». A farsi promotore e apripista dell’iniziativa non poteva che essere – dopo l’esaudimento nella sua richiesta di rimanere a Pinerolo e nella sua qualità di presidente della commissione Cei per l’ecumenismo e il dialogo – il buon vescovo Derio Olivero. Ne discuteranno anche i vescovi piemontesi alla cui prossima riunione parteciperà per la prima volta l’arcivescovo eletto di Torino il quale, come esperto teologo, non mancherà di offrire, su di un argomento così controverso, il suo contributo.
La visita di papa Francesco, con la celebrazione di una Messa solenne domenica 27 febbraio in Santa Croce, alla presenza del presidente Mattarella, avrebbe dovuto concludere l’incontro dei vescovi e dei sindaci del Mediterraneo organizzato dalla Cei e dal sindaco Dario Nardella nel ricordo del suo predecessore, l’indimenticabile profeta della pace Giorgio La Pira. Ma non solo il papa non si è fatto vedere ma ha proibito di farsi sostituire – come di solito avviene in questi casi – dal suo segretario di stato cardinale Pietro Parolin. L’assenza – dovuta ufficialmente a motivi di salute causati da «un’acuta gonalgia per la quale il medico ha prescritto un periodo di maggiore riposo per la gamba» – ha suscitato nei vescovi presenti a Firenze, fra cui alcuni piemontesi, un gran malcontento, nonché numerose polemiche. Quello che però ha li sconcertati e lasciati stupefatti è stato il fatto che durante l’Angelus in piazza San Pietro – trasmesso in diretta a Santa Croce con i patriarchi ortodossi e il capo dello Stato – il papa non abbia rivolto nemmeno un saluto o fatto un cenno all’importante incontro di Firenze. Nulla. Ha menzionato tutti i gruppi presenti in piazza – persino quelli dell’Unità pastorale dell’Alta Langa – ma dei suoi vescovi in preghiera per la pace nemmeno una parola.
Sembra che ad irritare Francesco sia stata la presenza all’incontro di Firenze dell’esponente del Pd Marco Minniti, già artefice a suo tempo in qualità di ministro dell’Interno dei discussi accordi Italia-Libia sulla gestione dei flussi migratori. Attualmente poi questi è presidente della Fondazione Med-Or Leonardo, azienda leader tra i principali produttori di armi. I ben informati però sostengono che il motivo del forfait dato ai vescovi sia un altro. È nota infatti l’idiosincrasia che il pontefice ha da tempo nei confronti del cardinale Giuseppe Betori da quando questi ha dichiarato che egli non crede alla santità di don Lorenzo Milani e che, fino a quando lui sarà arcivescovo di Firenze, non sarà introdotto alcun processo di beatificazione. Affermazioni pronunciate proprio negli stessi giorni quando, nel 2017, papa Francesco rendeva omaggio alla tomba del priore di Barbiana e ne esaltava la figura.