Sopravvissuta

Oggi vogliamo dedicare questa pagina ai “sopravvissuti”, ossia a coloro che hanno vissuto tragedie da cui sono usciti integri fisicamente, ma profondamente feriti nell’animo. Una lettrice, che preferisce rimanere anonima, ci ha inviato una lettera scritta tre anni dopo l’attentato del Museo del Bardo: un racconto che offre il punto di vista della vittima, anziché quello retorico fornito solitamente dai media.

L’attentatore insegue i visitatori del Museo sparando. Alcuni cadono a terra, altri fanno ritorno a casa ma la loro vita è destinata a non essere mai più la stessa, come quella dei loro familiari.

La testimonianza, inedita, è anche un j’accuse rivolto alle Istituzioni, troppe volte assenti, ai politici, generosi di parole ma sempre pronti a posare un velo d’oblio su fatti che non offrono occasione di visibilità.

La guerra è una bestia perennemente affamata, e oltre ai corpi divora anche l’anima dei sopravvissuti.

 

MUSEO DEL BARDO 18 MARZO 2015. ESPERIENZA DI UNA SOPRAVVISUTA

Non è facile raccontare e trasmettere quello che si è provato durante un attacco terroristico, anche perché fino a pochi secondi prima mai e poi mai immagini che questo stia accadendo proprio a te. Perché non si ha molto tempo per pensare, soprattutto se arrivi da un paese dove tutto scorre nella normalità di gente che gira tranquillamente per le strade. All’arrivo della nave nel porto di Tunisi, questa tranquillità purtroppo non l’ho percepita: affacciandomi dall’oblò della nave vedo infatti militari con un mitra in mano e dico a mio marito “Caspita che accoglienza! Qui sono armati”.

È talmente tutto così bello dalla nave, a partire dai bei momenti che vivo insieme alle mie amiche, che non ci penso più di tanto e quindi si scende e si parte con i pullman verso le diverse destinazioni previste dal programma: lavorazione tappeti, fabbrica delle essenze di profumi, Medina. Sembra un sogno poter vivere questi bei momenti con i rispettivi mariti e con le amiche ridendo e scherzando, e vi assicuro che sono stati bei momenti. E così si arriva a piedi dalla Medina al museo, attraversando una piazza e il palazzo del parlamento. Si procede a ritmo sostenuto, perché è già tardi e, dopo la visita al museo, ci aspetta un pranzo in un locale tunisino.

All’entrata del museo sembra tutto tranquillo, tutto nella norma. Passaggio dalla biglietteria e poi via: si parte con il visitare le sale. La nostra guida tunisina inizia a spiegare e lentamente passiamo dal piano terra al primo piano. Siamo affascinati dai mosaici e così mentre la guida spiega c’è chi filma, chi fotografa con il proprio cellulare.

Sono vicina a mio marito, quando sentiamo i primi colpi, che all’inizio sembrano petardi, ma che poi si fanno sempre più insistenti. Ed è da questa insistenza che ho capito che quelli erano spari. Mi affaccio da una finestra di una piccola sala e vedo dall’alto un ragazzo con un cappello nero e una pistola. È quello il momento in cui realizzo di essere nel pieno di un attentato; è quello il momento in cui inizia il terrore, la paura quella che non ho mai provato prima d’ora.

Prendo la mano di mio marito, perché capisco che stanno venendo da noi e stanno venendo per sparare. Se devo morire voglio farlo tenendo per mano lui, e questa mano non glie la lascerò fino alla fine dell’incubo. Continuano gli spari con il mitra e tutto rintrona nelle stanze: mi sento al centro di una guerra. Li sento ancora adesso quei colpi e il frastuono dei colpi delle granate, che si avvicinano sempre più dalle scale; e poi rivedo tutto: un signore polacco tutto insanguinato, la nostra guida insieme ad una hostess del museo che si danno da fare per tenerci tutti insieme e portarci verso un’uscita d’emergenza. La porta della salvezza!

È solo in quel momento che capisco che tra quelli che stanno attraversando quella porta non ci sono le mie amiche e il marito di una di loro, ma gli spari si fanno sempre più vicini: sono loro che salgono di corsa sparando con i mitra. La hostess tunisina invita velocemente ad entrare, ad attraversare quella porta, è a quel punto che capiamo che se quella porta si fosse chiusa, ci avrebbero uccisi lì sulla scala. Su quella scala ci siamo noi e gli altri del gruppo, ma non le mie amiche.

Usciamo velocemente dal museo e la guida ci porta in una caserma dove la polizia ci ha nascosti e protetti per ore. Anche lì il terrore: quello di vedere che i poliziotti si armavano e si mettevano i giubbotti antiproiettile ed entravano e uscivano. Poi il rumore degli elicotteri che iniziano a sorvolare la zona, le sirene delle ambulanze, le forze di polizia, tutti bardati come solo in televisione avevo visto. Solo per poco tempo riesco a sentire per telefono mia figlia, la tranquillizzo e le dico che siamo in una caserma e che aspetto notizie delle altre.

A un certo punto ci fanno uscire dal retro della caserma e passando in mezzo ai campi, scortati dai poliziotti, arriviamo in una strada dove ci aspetta un pullman e dove i militari delle forze speciali ci fanno salire di corsa. Anche loro mi fanno paura: dai loro elmetti si intravedono solo gli occhi. Ci nascondono di nuovo nella base militare, dove ci accolgono con bottiglie di acqua e delle arance. Noi non capiamo niente: siamo tutti spaventati, soprattutto una bambina che ha perso la mamma nel fuggi-fuggi ed è rimasta con la nonna.

Capiamo che qualcosa di terribilmente brutto è capitato e anche se la guida continuava a tranquillizzarci, lo si capiva dal suo sguardo. Stanno mettendo in sicurezza il tragitto che ci porterà sulla nave; ormai sono circa le sei del pomeriggio e ci fanno salire sul nostro pullman con le tendine tirate ai finestrini, nel bus in cui c’erano ancora le nostre cose sopra, nel portabagagli. Davanti e dietro il nostro pullman c’erano altri bus con le tendine tirate: ma questi erano vuoti.

Ci scortano fino alla nave con delle camionette piene di militari armati. Appena arrivati, cerchiamo di capire se le altre sono sulla nave ed è a quel punto che riesco a liberare la tensione in un pianto, perché mi rendo conto che loro non sono con noi. La nave riparte e solo in viaggio ci informano che due compagni di viaggio non sarebbero tornati dai loro figli e dai loro cari, e che altre persone erano rimaste ferite. Ferite da quei proiettili di piombo che purtroppo sono toccate alle mie amiche e che in me, ancora oggi, sono lunghe da guarire.

Ci sono le nostre ferite, quelle che insieme a mio marito ci è toccato affrontare: quelle ferite causate dai proiettili invisibili, quelli che ti attraversano l’anima e su cui non ci sono cure mediche. Io e la mia famiglia siamo tra quelli feriti da queste pallottole invisibili per le quali non ci sono operazioni chirurgiche che possano aiutare.

È difficile nascondere ai propri figli le proprie emozioni e il proprio stato d’animo e soprattutto loro sentono che noi siamo si tornati, ma in noi è cambiato qualcosa. Chi ha patito di più questa condizione è stato mio figlio di 18 anni, che 3 anni fa frequentava l’ultimo anno di scuola superiore. Lui che ha sentito la notizia dell’attentato dal televisore e ha dovuto aspettare ore prima di sapere se i suoi genitori erano in salvo o meno. Le sue crisi successive hanno portato i professori e la preside a ritenere che fosse diventato “matto”, e che se lo era diventato la colpa era della famiglia. Abbiamo dovuto sentirci dire anche questo dai suoi professori. Incomprensione e dolore per lui, che più di altri sente il mio dolore.

Sono arrivata addirittura al punto di desiderare di essere morta a Tunisi per non vedere soffrire in quel modo mio figlio. E in quel momento, in cui sono convinta di aver toccato il fondo, ho pensato che se continuavamo così io e mio marito ci saremmo ammalati e i miei figli non avrebbero avuto alcun sostegno né economico e tantomeno morale. A quel punto ho deciso di risalire dal fondo e di riemergere in superficie.

Certi eventi della vita sono come i cavalloni che si infrangono sulla riva del mare: non sempre puoi combatterli perché sono troppo violenti, e non sempre puoi fuggirli e tornare a riva perché sono più veloci di te. A volte devi prima aspettare nella parte buona del mare che la loro violenza si spezzi da sola su se stessa, per poi tornare in fretta a riva prima che arrivi il cavallone successivo.

L’onda che mi ha travolta a Tunisi 3 anni fa era più lunga e violenta di tutte le altre: non era un’onda normale era uno Tsunami, e forse ci voleva solo più tempo del previsto prima di infrangersi sulla riva. A distanza di tre anni voglio riemergere e continuare con la mia famiglia mio marito, le mie due figlie e mio figlio a tornare alla normalità, anche perché insieme abbiamo imparato a leccarci le ferite e insieme stiamo continuando a formare quel quadro bellissimo che è la vita, attraverso un puzzle dove ogni tanto perdiamo dei pezzi.

Per noi uno dei pezzi mancanti è proprio quello del diploma negato a mio figlio e spesso mi sento in colpa perché al momento giusto non sono stata in grado di aiutarlo, non sono stata abbastanza brava ad urlare al mondo che stavano sparando mio figlio a “casa nostra” nel nostro paese dove avremmo dovuto essere tutelati ed aiutati a superare i momenti difficili. Tutto questo nonostante avessi fatto presente, sia alla scuola sia alle massime istituzioni scolastiche, la tragedia e lo stato d’animo che stava vivendo la mia famiglia.

Adesso non vorrei più tacere, ma vorrei farmi portavoce di tutto questo e mi rivolgo a chi sta studiano e a chi sta lavorando a sostegno di queste “vittime di terrorismo” perché chi non vive la tragedia dell’anima e delle emozioni, vissute prima durante e dopo l’attentato, non può saperlo.

Nessuno può saperlo, se non noi che in quel museo c’eravamo. Noi che dentro quel museo ogni tanto ci torniamo con la mente e cerchiamo di capire, con il senso di colpa che ci pervade, dove ci siamo persi e se potevamo aiutare gli altri ad uscire insieme a noi indenni oppure seguirli. E ancora ci chiediamo adesso, io e mio marito, che chissà: forse se uno di noi due o nessuno di noi avesse fatto ritorno a casa, solo allora le istituzioni avrebbero compreso che c’erano altri tre figli, interiormente feriti, da sostenere e accompagnare. Ma noi per fortuna siamo tornati e anche se forse non ci sentiamo più i genitori che avremmo voluto essere, il nostro compito è quello di sostenere i nostri figli sempre, con tutte le nostre forze, fino alla fine dei nostri giorni.

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